Report del meeting "Dentro e oltre lo zapatismo partenopeo"

23 / 9 / 2016

Dal 16 al 18 settembre si è svolto a Napoli il meeting “Dentro e oltre lo zapatismo partenopeo”.

Discussioni, tavoli di lavoro, momenti serrati di confronto per condividere l'orizzonte politico di discussione con tantissime realtà di base, comitati territoriali, collettivi studenteschi, centri sociali che – quotidianamente – provano ad opporsi alle misure di sfruttamento e saccheggio messe in campo dal governo Renzi. Dai comitati No Tav della Valsusa agli attivisti che si battono contro il piano di trivellazione sulle coste adriatiche, dai No Grandi Navi alle esperienze campane che lottano contro la lobby dei rifiuti, delle discariche e degli inceneritori in Campania, sono scaturiti diversi stimoli su come ricostruire uno spazio di decisionalità autonomo per i territori e le comunità resistenti che li difendono, mettendo in crisi il comando nazionale e sovranazionale e aprendo, dal basso, laboratori di nuova democrazia.

Per fare tutto questo non si può che partire dalla valorizzazione dei focolai di resistenza che animano il paese: per questa ragione la nostra tre giorni non è iniziata né con un'assemblea, né con un seminario, né con un dibattito pubblico.

È iniziata invece in piazza – il luogo naturale dal quale trarre indicazioni e forze per sperimentare nuove forme dell'agire politico nella crisi – a Chiaiano, insieme alle centinaia di persone che hanno manifestato contro il Piano Ecoballe della giunta De Luca, che prevede la localizzazione di nuovi impianti di discarica nell'area metropolitana di Napoli.

A partire dalle istanze che vengono proprio dalle realtà di base, abbiamo poi sviluppato le sessioni di confronto del sabato: tavoli di lavoro sul capitalismo predatorio, sulla crisi del sistema d'istruzione scolastica e universitaria, sul fenomeno migratorio e sulla democrazia radicale.

Una discussione ampia e articolata, della quale non ambiamo a tracciare una sintesi (rimandando ai singoli contributi preparatori e successivi ai tavoli per un maggior approfondimento), ma dalla quale proviamo a ricevere un'agenda politica minima, in cui tessere insieme le esperienze di lotta dalle quali proveniamo. Un'agenda politica che non ha la mera ambizione di saturare l'autunno con date liturgiche, ma che invece – nella congiuntura politica nella quale il paese è immerso – individua una chance di ricomposizione e di mobilitazione. Una congiuntura all'interno della quale abbiamo assistito in questi mesi alla progressiva ed esponenziale catalizzazione del dibattito e dello scenario politico intorno alla questione del referendum costituzionale, su cui riteniamo imprescindibile prendere posizione, in modo chiaro e netto.

Quando le esperienze di base guardano al referendum costituzionale, lo fanno – ovviamente – con un'irriducibile distanza dal miserabile dibattito sull'ipotetica “crisi del centro sinistra” che il referendum potrebbe produrre. Non abbiamo mai creduto che la politica fosse il territorio dei personalismi e dell'etica individuale. Pensiamo che i responsabili della crisi strutturale nella quale siamo intrappolati siano i partiti di maggioranza al governo – il Partito Democratico in testa – e non questo o quel parlamentare. Se il referendum serve perché pezzi del PD screditino Renzi per intestarsi ruoli di spicco nel medio-lungo termine, questa non può essere una nostra preoccupazione. Né pensiamo ci sia alcuno spazio possibile di condivisione politica con chiunque provenga da questi mondi e provi oggi a proporsi come interlocutore affidabile. Questo vale per i pezzi di organizzazioni politiche, associazionismo, sindacato legati al PD, ma vale allo stesso modo per tutti i fautori dell'immancabile “soggetto politico di sinistra” che – dopo i ripetuti fallimenti – sperano ancora di poter utilizzare la battaglia referendaria per costruirsi un pedigree di movimento, con il quale tornare a sperare di raggranellare abbastanza voti da superare lo sbarramento alle prossime politiche.

Nel corso degli ultimi anni lavoratori, precari, studenti e movimenti hanno potuto sperimentare direttamente sulla propria pelle la demolizione  di diritti e garanzie di rilevanza costituzionale, ma non per questo sopravvissuti alla decretazione d'urgenza ed alla ordinaria legislazione di adeguamento ai diktat  della governance europea e della grande finanza. Il bicameralismo perfetto non ha impedito al Partito Democratico ed ai suoi alleati di seppellire il risultato del referendum del 2011 sull'acqua ed i servizi pubblici locali, né di anticipare attraverso lo Sblocca Italia quell'accentramento di competenze e quella corrispondente spoliazione decisionale dei territori che ora si vorrebbe cristallizzare nell'articolato costituzionale. Allo stesso modo i fondamentali precetti costituzionali non sono riusciti ad evitare l'inserimento nella Carta fondamentale del fiscal-compact, deliberato in pochi giorni dalle due Camere del Parlamento, nè riescono ad evitare la quotidiana e sistematica violazione del diritto di asilo. Tutto questo non significa dire che il referendum costituzionale non rappresenti una finestra politica rilevante. Ogni spazio che possa fungere da connettore delle esperienze che si oppongono alle politiche governative deve essere praticato per produrre interlocuzioni, connessioni, reti, linguaggi condivisi tra le diverse esperienze di lotta. Ma è  anche necessario, affinché  i processi siano reali e progressivi, costruirli sulla chiarezza degli obiettivi e delle prospettive. Il NO alla riforma costituzionale non può separare le responsabilità di chi promuove il cambiamento della Costituzione formale da quelle di chi ha già praticato e continuerà a praticare i medesimi cambiamenti nella Costituzione materiale del Paese. E neppure può assumere il profilo della mera difesa della Costituzione, trasfigurata in "principio assoluto " avulso dai reali rapporti di forza che determinano i dispositivi di regolazione sociale e dalla necessità di nostre rivendicazioni costituenti, prima tra tutte quella della restituzione alle comunità territoriali del potere decisionale espropriato.

Per questo crediamo che il "no sociale" alla riforma costituzionale non possa limitarsi ad una "narrazione", destinata ad essere soffocata dalla polarizzazione della propaganda mediatica tra il SI ed il NO al quesito referendario, ma debba materializzarsi in una pratica degli obiettivi che sia a sua volta semplice ed immediata: contro il Partito Democratico, primo responsabile delle contro-riforme materiali che imperversano nel Paese; contro la nuova stagione di privatizzazioni, a partire dalla resistenza  all'operazione Madia, per l'immediata restituzione del risultato del referendum del 2011 e per una nuova centralità materiale e formale dei territori nei processi decisionali.

È in questa prospettiva che assumiamo da subito gli appuntamenti di mobilitazione che già sono nell'agenda dei movimenti.

Saremo in piazza a Roma il 24 settembre in sostegno del popolo curdo e contro l'azione politica neofascista del governo Erdogan, spalleggiato impunemente dai leader dell'Unione Europea.

Saremo in piazza il 25 settembre a Venezia per opporci al modello di sviluppo che impone a quel territorio i danni prodotti dalle lobby delle Grandi Navi.

Saremo in piazza il 7 ottobre, in tantissime città d'Italia, come studenti e precari in lotta contro la buona scuola.

Soprattutto, raccogliendo l'appello promosso dalla pagina facebook “C'è chi dice NO”, saremo a Roma il 1 ottobre alla Sapienza per confrontarci insieme a tantissime realtà di base sulle possibilità di sviluppare insieme una piattaforma di lotta coordinata che attraversi la temporalità politica individuata dal referendum.

Questa è la direzione in cui intendiamo muoverci, convinti che non esistono scorciatoie.

Le peggiori misure di austerity imposte al Paese sono state approvate, a colpi di fiducia, da un parlamento non ancora riformato. La riforma – in sé – non fa che registrare, dal punto di vista della costituzione formale, quello che è già vero dal punto di vista della costituzione materiale. È quest'ultima, dunque, che dobbiamo riscrivere insieme, in un processo di attivazione sociale che si renda inutilizzabile dai giochi di partito e traduca in pratica concreta la necessità di nuove ed autonome traiettorie costituenti.