Reggio Emilia: paradigma securitario, crisi e prospettive

Riflessioni in movimento sul percorso di Io Non Ho Paura

Utente: Emi
25 / 6 / 2009

Vediamo ormai da diversi anni il proliferare, in ogni territorio, dell’emanazione di decreti, divieti, ordinanze tese a delimitare gli spazi di libertà sociale, soggettivi e collettivi; il paradigma della sicurezza diventa cavallo di battaglia politica, laddove i principali partiti dell’arco parlamentare (dalla Lega Nord al Partito Democratico, per intendersi) non riescono a rispondere alle nuove sfide che la crisi del ultraliberismo pone alla politica e alla società.
Così sempre più sindaci si improvvisano sceriffi, declinando questo ruolo in funzione dei territori che amministrano e della loro storia, firmando provvedimenti senza alcun senso politico se non quello di avviare un’assurda guerra tra gli ultimi, trovare capri espiatori e mettere al riparo il proprio potere e quello della propria claque (grandi imprenditori, cooperative e in generale buona parte dell’economia) dal devastante impatto della crisi economica.

A Reggio Emilia, dopo le ordinanze anti-immigrazione, le retate ai campetti sportivi e ai luoghi di ritrovo abituali dei cittadini migranti, l’ordinanza che impone la chiusura dei kebab dalle 22, i provvedimenti contro l’alcol e l’aggregazione nel centro storico, il Prefetto, di concerto con l’Amministrazione, ha alzato il tiro, facendo propria una direttiva del ministro dell’interno Bobo Maroni, vietando le principali vie e piazze del centro storico alle manifestazioni (escludendo quelle di carattere religioso o tradizionale) per tutto il weekend.
Dopo cortei non autorizzati, manganellate e i corollari di polemica politica pre-elettorale il divieto è stato sospeso, prima fino al 30 giugno, ed ora fino al 30 settembre, a seguito delle pressioni dei movimenti e della campagna Io Non Ho Paura lanciata da diverse soggettività organizzate del territorio.

Se la battaglia non è ancora, ovviamente, conclusa, è importante sottolineare il precedente importante che si è venuto a creare: abbiamo scoperto che è possibile organizzare insorgenze soggettive e conseguire risultati importanti.
Proprio questo fa la forza del movimento Io Non Ho Paura, non replicare le vetuste dinamiche in stile social forum, bensì unire in un luogo di discussione e produzione politica (produzione di pensiero e di pratiche reali) le soggettività insorgenti, o quantomeno sensibili, ai temi della libertà vs “sicurezza”.
La tornata delle elezioni amministrative ha fatto emergere dati importanti: l’ascesa della Lega Nord che ha ottenuto più di 18 punti percentuali e la catacombe della vecchia sinistra rappresentativa con la scomparsa di Rifondazione, Sinistra e Verdi, Comunisti Italiani dal consiglio comunale.
Sono elementi questi che impongono una seria riflessione.

Da un lato vediamo le forze della destra estrema, e di governo, compiere un’avanzata formidabile (tendenza presente in quasi tutti i paesi del continente Europeo) perché in grado di fornire risposte semplici e immediate al bisogno di stabilità e, appunto, sicurezza insito nella grandi società capitaliste, e su questo punto fiumi di parole sono già state spese dalla psicologia sociale. Le risposte che questo tipo di amenità politica dà sono quelle che sappiamo tutti molto bene: xenofobia, razzismo, il “faut cultiver notre jardin”, insomma il trovare nelle categorie sociali più deboli (e nei gruppi antagonisti) il capro espiatorio rispetto alle ricadute della crisi sulla vita delle persone. Le ordinanze e i divieti da cui prende le mosse questo testo sono vere e proprie declinazioni sul territorio di queste tendenze, perpetuate per altro sia da amministrazioni di centro destra che di centrosinistra.
Dall’altro lato la definitiva débacle della vecchia sinistra novecentesca, che con una sorta di anomalo processo top-down dal Parlamento arriva ai consigli comunali, dimostra come questa parte politica, privata dei suoi feticci e dei suoi leader carismatici, non sia in grado di fornire alcun tipo di risposta credibile o reale alla crisi. L’incapacità di fronteggiare la crisi deriva proprio dal vincolo politico della rappresentanza: non risposte reali ai problemi delle persone travolte dalla crisi, bensì calcolo politico, pseudo tentativi di “ricomposizione di classe”, veduta parziale dei problemi (di volta in volta, lavoratori, famiglie, pensionati e via dicendo).

A queste brevi considerazioni, si aggiunga il teatrino politico-economico visto con l’assemblea generale di Confindustria dello scorso 22 giugno al teatro Valli.
Una sala gremita di grandi e medi imprenditori locali, alla presenza della presidente Marcegaglia, del segretario Cisl Bonanni e di quasi tutto il mondo politico reggiano, ha richiesto a gran voce l’impegno della politica per rilanciare l’economia in crisi.
E, ovviamente, la politica risponde in modo affermativo, chinando la testa agli industriali, promettendo mari e monti e facendo ben capire a chi andrà l’occhio di riguardo per i prossimi cinque anni di amministrazione locale.
In questo senso possiamo scorgere una nuova funzione, prospettica, del divieto a manifestare: se la crisi accentuerà ancora i disagi (soprattutto nei portafogli) delle persone, esse tenderanno a ribellarsi, per cui serve necessariamente un argine contro eventuali insorgenze.
Nell’affermare questo possiamo prendere in esame la breve “storia” di questo divieto: il primo tentativo, informale, di sperimentazione lo hanno incontrato i migranti irregolari (i cosiddetti clandestini) che durante un presidio contro il pacchetto sicurezza si sono visti cacciare dalla piazza, con la minaccia di espulsioni e arresti, da decine di uomini della Digos perché “il clandestino non può rivendicare pubblicamente il proprio status, in quanto irregolare/illegale”.
Dopo questo episodio il Prefetto, in sordina, ha emanato questo divieto allargando il raggio di azione per cercare di eliminare le manifestazioni della “sinistra antagonista dei centri sociali e degli islamici” (per citare Fossa, esponente della Lega).
Non sarebbe azzardato allora affermare, seguendo ancora questo procedimento bottom-up (dagli ultimi, ai penultimi via via salendo), che in caso di occasioni conflittuali dei lavoratori, dei precari e di ampi strati della società contro la crisi, il divieto possa venire ulteriormente espanso e i confini del recinto della cosiddetta “legalità” ristretti.

Se queste considerazioni possono far sembrare la situazione tragica, de facto lo è, esse aprono notevoli spazi di agibilità pratico-politica ai movimenti sociali, della cosiddetta società civile.
Lo iato che intercorre tra necessità, problemi reali della società e la rappresentanza è ormai incolmabile dalle vecchie forme politiche della sinistra novecentesca.
Questo spazio può essere riempito dalle pratiche di movimento, si tratta di sperimentare attraverso le lotte forme di organizzazione altre, creare reti di soggettività insorgenti che possano dare risposte reali.
Il passaggio di discussione e sperimentazione non può che avvenire attraverso lotte e pratiche perché non esiste un modello prestabilito e prestampato di organizzazione di queste soggettività.
Sarà, per citare Judith Revel, l’assenza di velleità estetiche nelle pratiche politiche, la sperimentazione di nuove forme di comunicazione, la creazione di spazi fisici e politici nelle città a guidare le attività di questi movimenti in questa nuova fase.
La sfida che abbiamo davanti è enorme, ma mai come oggi possiamo affrontarla con i nuovi strumenti che l’apertura della battaglia in campo aperto, senza vincoli, ci lascia a disposizione.