Modello Aemilia

Reggio Emilia alla rovescia: Grandi opere, neoliberismo e culto della legalità

Contributo del Laboratorio Aq16, Città Migrante, Casa Bettola

15 / 4 / 2015

Chi oggi si schiera nelle battaglie per la giustizia sociale e ambientale nelle sue molteplici forme non può che vivere con profondo disagio l’intima connessione che intreccia il modello produttivo e politico emiliano, oggi ben rappresentati nell’esecutivo Renzi con due ministri, Poletti e Del Rio, con tutta la stucchevole retorica legalitaria antimafia che trasuda nelle prese di posizione e negli apparati comunicativi delle istituzioni locali. Poletti e Del Rio rispettivamente a capo del ministero del welfare e delle infrastrutture, ovvero i pilastri della gestione neoliberista dell’economia del paese, esportano su scala nazionale il modello emiliano che, duro a morire, ancora viene narrato come il miglior esempio di opportunità, legalità, cooperazione e solidarietà sociale. La realtà oggettiva che abbiamo sotto gli occhi è tuttavia molto diversa e ci consegna una fotografia di un territorio, quello emiliano, epicentro del malaffare mafioso nel nord Italia. Un territorio dove la disaffezione verso la vita politica pubblica, culminata con l’allarmante diserzione alla tornata elettorale per il rinnovo dell’assemblea regionale, segnala un forte malessere del corpo sociale davanti agli scandali del ceto politico incarnato dal Partito Democratico. I numeri dell’operazione Aemilia coordinata dalla dda antimafia di Bologna sono enormi: oltre 200 indagati, 160 arresti e 100 milioni di beni sequestrati, il tutto relativo al business della ricostruzione post sisma del 2012 e al ruolo centrale del clan capeggiato dal boss Nicolino Grande Aracri di Cutro. L’inchiesta ha travalicato i confini regionali, attraversando altri territori del nord Italia, basti pensare all’avviso di garanzia per corruzione al sindaco di Mantova di Forza Italia, o al coinvolgimento delle procure lombarde, siciliane e calabresi. Balza subito all’occhio come il baricentro di questo sistema mafioso fosse situato nella provincia di Reggio Emilia. Sempre per restare in tema, fresca di cronaca è la vicenda del sistema corruttivo legato all’appalto della metanizzazione dell’isola di Ischia, appalto che vedeva per l’ennesima volta un azienda di Legacoop, la Cpl Concordia di Modena agli onori della cronaca giudiziaria nazionale. Potremmo continuare per pagine e pagine ed elencare le decine di indagini, processi, sequestri di beni, che vedono realtà economiche cooperative emiliane invischiate in torbide vicende di appalti di grandi opere, come potremmo continuare citare esempi di come l’economia mafiosa sia radicata ed estesa nel territorio del nord Italia ed in particolare in Emilia Romagna. Non che altri territori, come Lombardia, nord est e la stessa capitale siano immuni da questi fenomeni, anzi, le recenti indagini sugli appalti per Expo2015, il Mose, l’inchiesta “Mafia capitale” segnano la misura della sistematica corruzione malavitosa legata ai grandi appalti. Ci limiteremo a citare il modello emiliano perché è quello che conosciamo meglio e lasciamo l’analisi specifica di questo complesso sistema a quei bravi e coraggiosi giornalisti, cui va tutta la nostra stima, che tutti i giorni ci mettono la faccia denunciando gli intrecci della filiera del malaffare mafioso in Italia. 

Quello che non è stato detto sull’inchiesta Aemilia 

Esiste una pagina non ancora scritta relativa al mondo scoperchiato dall’inchiesta Aemilia, ovvero quelle migliaia di persone impiegate negli appalti, nei cantieri di quelle ditte oggi sotto i riflettori della magistratura e della stampa. Come movimento antirazzista abbiamo incontrato, ascoltato e seguito quelle persone di origine straniera vittime di truffe, raggiri e sfruttamento lavorativo. Molti di quei nomi che oggi appaiono sulle pagine dei giornali e che compongono il mosaico del malaffare emiliano ieri erano anonimi titolari di ditte edili, capofila della filiera del capolarato e del lavoro nero. Imprenditori senza scrupoli, che approfittando di un piano regolatore scellerato come quello del 1999, hanno cementificato un intero territorio utilizzando manodopera di origine straniera, in particolar modo irregolare, sottopagata e sfruttata approfittando della condizione di 10 ricattabilità a cui una persona senza permesso di soggiorno è inevitabilmente sottoposta. L’operazione Aemilia ha messo in evidenza un fenomeno eccezionale legato alla ricostruzione post sisma del 2012 ma non è niente di nuovo rispetto al meccanismo già consolidato in territorio reggiano, nonostante politici e amministratori abbiano sempre negato l’esistenza di una sistemica infiltrazione della criminalità organizzata e affrontato il fenomeno come agente tossico che dall’esterno attacca il corpo sano del sistema emiliano. Negli anni abbiamo toccato con mano questo fenomeno lottando insieme alle centinaia di lavoratori invisibili vittime di sfruttamento e della criminalità organizzata. La memoria ci porta alla vicenda Italedil (anno 206/2007) , vicenda che non ha ancora visto la sua chiusura in ambito giudiziario e che vede imputate 10 persone per associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento della manodopera clandestina. Le ditte coinvolte sono tre: la F.R.M. Ital Edil srl, la Technological Building 7 srl e la Valsem Costruction Italia. Tutte facenti parte del settore edile, le prime due con sede a Reggio Emilia e la terza in Moldova. I lavoratori moldavi venivano direttamente reclutati al paese di origine e pagati con gli stipendi moldavi 1,75 euro l’ora, mentre gli altri, in maggior parte di origine egiziana, venivano reclutati in loco e costretti a firmare un contratto con un nome falso come condizione per poter lavorare. Le ditte lavoravano in più di 40 cantieri con appalti di opere pubbliche. Dagli atti del processo emerge che i lavoratori “assunti” dalla ditta erano non meno di quattrocento senza contare quante persone in realtà lavoravano sotto lo stesso nome. Una settantina di questi lavoratori hanno denunciato di non essere stati pagati, spesso gli veniva detto che parte dello stipendio serviva per la loro regolarizzazione, e di essere stati più volte minacciati. Alle denunce legali sono seguite una serie di iniziative fra cui un picchetto in una di queste ditte. I lavoratori che hanno sporto querela hanno ottenuto un permesso di soggiorno per protezione sociale ai sensi dell’art 18 del Testo Unico sull’immigrazione. Vantano un credito che varia dai 3000 agli 8000 euro fino a punte di 25.000 per un totale di circa 700.000 euro. 

 Dal nostro punto di osservazione, ovvero lo Sportello dell’associazione Città Migrante, emerge inoltre come parecchi di quei nomi oggi inquisiti sono personaggi a noi noti, alcuni addirittura dal 2002, anno della prima sanatoria dell’era Bossi- Fini. Sono i finti datori di lavoro che in cambio di denaro vendono contratti di assunzione necessari per la regolarizzazione tramite le varie sanatorie (2002-2009-2012), quelle stesse sanatorie che abbiamo più volte definito truffe a danno dei migranti. Le sanatorie sono regolarizzazioni eccezionali che lo stato prevede per sanare il datore di lavoro che utilizza manodopera clandestina in nero. Per il lavoratore migrante irregolare, vista la legge sull’immigrazione, diventa l’unica possibilità di regolarizzazione, per cui si vede costretto ad accettare qualsiasi cosa pur di emergere dall’invisibilità, dal pagarsi i contributi, al pagarsi il contratto di lavoro. Vogliamo fare un esempio significativo per capire la portata del fenomeno. Questo in particolare riguarda la sanatoria del 2009 che prevedeva la possibilità di regolarizzare al massimo due badanti e una colf per ogni datore di lavoro. A Reggio Emilia, un datore di lavoro ha presentato 60 domande di regolarizzazione pur sapendo che non sarebbero andate a buon fine. Noi abbiamo incontrato alcuni di questi malcapitati a cui per questa illusoria regolarizzazione è stato chiesto 3000 euro. 3000 per 60 risulta 180mila euro, anche se togliamo qualche spesa di gestione e tasse varie si capisce al volo la portata della truffa. Il nesso fra legge sull’immigrazione, piani regolatori tutto cemento e tondino e la necessità di manodopera a basso costo da impiegare soprattutto nel settore edile, ha attirato sul territorio reggiano un esercito di muratori, il “sole 24 ore” nell’anno 2008 ha stimato 15mila migranti irregolari sul territorio reggiano. Gli stessi che dopo essere stati sfruttati sono stati truffati e quando non più utili a nessuno, ormai in piena crisi edilizia e non solo, espulsi prima dal mondo del lavoro e poi dal tessuto sociale.

  Da dove viene il governo Renzi, quale il suo ruolo, quali strategie? 

Tornando sul piano politico, che è quello che ci interessa ora, la domanda sorge spontanea, che nesso c’è nella filiera politico/economica che esprime da un lato malaffare, corruzione ed ingiustizia sociale e quella che produce politici, figure come Del Rio, Poletti e potenti tecnici come Incalza? E’ questo modello che Poletti e Del Rio stanno adattando e promuovendo all’intero paese? Se è così, per conto di chi? Che interessi difende il governo Renzi? Le azioni dei governi tecnici, o di larghe intese, che da anni si susseguono in Italia applicano pedissequamente i punti programmatici, ancora attualissimi, ben espressi nella lettera che Draghi e Trichet inviarono nel 2010 all’allora governo Berlusconi. Da allora l’esecutivo Monti, Letta e Renzi poi, giova ricordare governi non voluti e non votati da nessuno, applicano la via italiana all’austerity ben inseriti nel quadro neoliberista europeo. A differenza degli altri due però va sottolineato come l’esecutivo Renzi non si connoti come governo meramente tecnico, ma si staglia come un esecutivo politicissimo, che già interiorizzata la disciplina ordoliberale tedesca, la rinnova con aspetti italianissimi che spaziano dal ridicolo, al grottesco ma che poi si tingono di tendenze autoritarie. Basti pensare all’associazione di un concetto come la meritocrazia, applicata da noi in ogni salsa per celare privatizzazioni, tagli e stratificazioni dei diritti, e le strade privilegiate cui hanno avuto accesso i figli di ministri come Lupi, Cancellieri e Fornero. Oppure al jobs act del ministro Poletti, che istituzionalizza la precarietà e fa ripiombare le relazioni che regolano il mercato del lavoro in pieno ottocento, per non parlare delle modifiche costituzionali, della riforma elettorale e la poca considerazione data da Renzi all’opposizione parlamentare e sociale. In questa congiuntura storica e, va sempre ricordato, dopo l’epoca berlusconiana, si capisce come un governo Renzi fortemente neoliberista, connotato da pulsioni di destra e figlio di un’epoca in cui le dottrine della finanza speculativa spadroneggiano in ogni piano della governance, utilizzi l’eccezionalità e l’emergenzialità come strumento di manovra. Grandi opere, calamità naturali, crisi economiche sono gli impulsi vitali, anzi vere e proprie onde da surfare per sperimentare e poi attuare una governabilità finalizzata alla modifica dell’assetto legislativo che regolerà la società e le sue relazioni produttive da qui in poi. Zero vincoli per le imprese, zero diritti sociali ed ambientali per lavoratori e cittadini, neanche Berlusconi osò fino a questo punto, un capitalismo finalmente slegato dalla democrazia liberale pronto per giocare alla pari con i colossi nella sfida globale. 

Ecco spiegato perché nonostante il succedersi di scandali, inchieste, procedimenti giudiziari, talvolta culminati con condanne, il sistema delle grandi opere e del malaffare ricompare, spesso con le stesse aziende e gli stessi nomi, niente cambia. Come dire: morto un Incalza se ne fa un altro. In effetti quale migliore strumento slegato da qualsiasi vincolo ambientale, lavorativo e legale come il modello imprenditoriale ibrido delle costruzioni e della mafia per sperimentare forme di lavoro schiavistico, a basso costo e competitivo sul mercato globale? Perché non mettere a valore la capacità imprenditoriale di colossi malavitosi di cui è ricco il paese, in fondo sono molti gli aspetti che accomunano gli interessi dei clan con gli obbiettivi strategici dei lupi del capitalismo finanziario. Anzi a questo punto è bene sottolineare come la mafia, nei suoi aspetti di gestione gerarchica della società e nella sua capacità imprenditoriale e gestionale dell’economia reale sia da trattare come una forma concorrenziale e spesso vincente di capitalismo moderno, complementare con l’altrettanto brutale forma di dominio della finanza. L’operato del governo Renzi e dei suoi ministri gioca oggi l’ambiziosa sfida di essere player nel quadro di governance europea tra la disciplina della troika e l’ingordigia della confindustria italiana da un lato e colossi economici multinazionali come la ‘ndrangheta calabrese da un fatturato stimato a 53 miliardi di euro. 

Limite del culto della legalità antimafia 

Per chi cerca oggi un’alternativa di sistema, ragionando su modelli che mettano al centro il lavoro, un reddito minimo, l’estensione dei diritti di cittadinanza ed in particolare un modello che inverta la tendenza involutiva della sfera dei diritti non può che scontrarsi con l’apparato legislativo e la produzione di norma. Il diritto, inteso come l’insieme e il complesso delle norme che regolano la vita dei membri della comunità di riferimento, oggi è interamente occupato dalla legislazione statuale. Negli ultimi decenni in Europa il diritto si è stratificato in vari livelli, il piano europeo, il piano nazionale, il piano locale. Dal 2008 in poi, dopo la crisi finanziaria dei mutui subprime, si è intensificato il processo di straniamento della produzione di norma dal corpo sociale di riferimento, basti pensare al fiscal compact, all’imposizione del pareggio in bilancio in Italia, il memorandum in Grecia… Tutte norme  nate in luoghi lontani dai territori dove queste leggi poi sono andate ad agire. Leggi imposte ai governi nazionali europei da enti sovranazionali non elettivi che difendono gli interessi di quell’1% ben descritto nelle elaborazioni dei movimenti occupy di qualche anno fa. In questo senso che valore ha parlare di legalità come valore assoluto? Il principio della legalità così espresso altro non è che rispetto delle norme. Ma se le norme sono, come sono in effetti, scritte per l’1% ed applicate contro gli interessi del corpo sociale, quale valore assume quindi per chi difende la giustizia sociale una cultura della legalità superficiale e meccanica? Nulla, anzi spesso un ostacolo ed un antagonista nella strada verso un’alternativa di sistema. Chi ha a che fare con le ingiustizie, con la povertà, con la mancanza di lavoro e reddito, con il problema della casa, noterà che la magistratura tenderà ad essere severa e pesante con le realtà che praticano politica di base e rimanere molto labile, se non impercettibile nel contenere gli appetiti della finanza. Come dire una legalità aperta e tollerante verso l’alto e inflessibile e repressiva verso il basso. Un esempio in tal senso è il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip), un accordo in fase di discussione tra Unione europea e Usa che addirittura rende subalterna ogni legislazione locale in ambito ambientale, commerciale, in materia di diritti sul lavoro se questa lede gli interessi commerciali di una corporation…più aperti di così! Per noi attivisti politici di base invece processi, criminalizzazione, carcere, misure cautelari e la sistematica indifferenza verso le poche eroiche iniziative con valore normativo provenienti dal basso (il referendum sull’acqua pubblica ve lo ricordate?) Ma quale principio della legalità!!! Chi è l’illegale, lo sfruttato o lo sfruttatore? Chi occupa una casa abbandonata perché in strada o chi fa speculazione edilizia? Qui serve illegalità di massa, produzione di zone franche dove sperimentare nuova legittimità e nuove fonti normative da estendere per ricostruire nuovo senso collettivo, più diritti e redistribuzione della ricchezza che socialmente tutti i giorni produciamo. Per produrre finalmente leggi condivise che nascono dal corpo sociale per tutelarne gli interessi, dando nuovo valore ai concetti di democrazia e bene comune svincolati dalle entità statuali. 

 E’ per questo che un’azione credibile antimafia oggi non può non prendere in seria considerazione una profonda critica al modello economico e sociale egemone, il capitalismo finanziario. Perché se la mafia è un sistema sovranazionale predatorio ed autoritario lo stesso si può dire del modello tecnocratico dell’austerity imposto dalla troika. Pensare oggi a un ritorno ad un capitalismo buono, riformabile ed arginabile, democratico e magari edulcorato dai suoi aspetti più rapaci da misure neokeinesiane è alquanto fuoriluogo, smentito dai fatti e dalle tendenze pensate per noi 99% nei piani alti di Wall Street, nella city di Londra o a Francoforte dove ha sede la Bce. Pensiamo che il perseverare di una cultura della legalità senza una presa di posizione anticapitalista rafforzi la posizione che istituzioni e magistratura hanno dei movimenti sociali ed ambientali, ovvero nemici da reprimere perché praticano l’illegalità. E un fiero esponente di questo tipo di cultura antimafia è rappresentato dal giudice in pensione Giancarlo Caselli, idolo della battaglia contro le cosche da un lato ma strenuo repressore dei movimenti di protesta contro le grandi opere (opere in cui la mafia stende i suoi tentacoli), vedi movimento NoTav. Questa cultura antimafia, ironia della sorte, in Emilia è sempre più patrocinata e sponsorizzata da quelle stesse istituzioni che, seppur estranee per ora alle inchieste delle procure, hanno favorito e stimolato per decenni quel terreno fertile al radicamento della malavita promuovendo piani regolatori scriteriati, sottovalutando il problema trincerandosi dietro l’assioma del contesto sano sotto attacco di agenti tossici esterni. Oggi è palese che non esiste più un nocciolo sano da difendere, il limite del sistema economico, politico e sociale è sotto gli occhi di tutti e la mafia è li con i suoi capitali pronti da investire. Pensiamo che basti l’azione della magistratura per arginare la malavita? Ovvero quella stessa magistratura che mette sullo stesso piano il mafioso e il militante politico anticapitalista. La perdita di sovranità popolare nei confronti del capitalismo finanziario e parallelamente l’avanzata del sistema mafioso è figlia della progressiva abdicazione e sconfitta delle strutture storicamente rappresentative degli interessi dei lavoratori e dei cittadini: sindacati e partiti oggi sempre più spesso sono responsabili di questa dinamica. Il cambiamento che vogliamo si darà solo se ampi settori sociali si coalizzeranno e decideranno insieme dove andare e con quali mezzi. Le esperienze dei 16 governi in America latina ne sono una testimonianza, la scelta del popolo greco è evidente, la battaglia per l’autodeterminazione della Rojava contro il fanatismo dell’Isis lo racconta ogni giorno. Un freno alla predazione dei beni comuni e delle ricchezze socialmente prodotte si darà promuovendo e stimolando il ritorno sulla scena del conflitto sociale, abbandonando l’individualismo spinto che vent’anni di governo Berlusconi ci lasciano. Essere oggi contro le grandi opere come l’Expo, battersi per la giustizia ambientale e sociale è parte della lotta contro la mafia.

Reggio Emilia alla rovescia

Reggio Emilia alla rovescia: Grandi opere, neoliberismo e culto della legalità!