Sull'informazione, i movimenti e le rivolte

Quando l'ordine del discorso diventa caos

6 / 7 / 2011

“In che modo, nelle società occidentali moderne,
la produzione di discorsi cui si è attribuito
 un valore di verità è legata ai vari
meccanismi ed istituzioni di potere?”
(Foucault 1976).


A volte è preoccupante la facilità con cui si cercano e si trovano citazioni colte che descrivono il “lato oscuro” del tempo in cui viviamo, che seppure a volte appare sbiadito, risulta sempre attuale e in agguato. Ma lasciamo ad altri l’ “arte della citazione”. Chi ieri non era in Val di Susa ed ha avuto il “privilegio” di seguire “on line” ciò che succedeva è probabile che abbia avuto una chiara sensazione: l’”ordine del discorso” consiste nel confondere, nel riscrivere la realtà. 

Facciamo un salto concettuale e immergiamoci un attimo nelle maglie della governance europea: proprio in questi giorni, sono usciti nuovi bandi con oggetto l’ “esportazione della democrazia” nei paesi arabi. A prescindere dal fatto che ci vuole una buona dose di arroganza per continuare ad auto decretarsi, dopo la catastrofe prodotta da secoli di colonialismo, esportatori di democrazia, ciò che più colpisce è altro. Ovvero la dislessia linguistica di chi scrive sui nostri quotidiani e parla in televisione nutrendo di opinioni il popolo italiano.

Noi siamo, a seconda della penna o dello stile della prosa, “i ragazzi dei centri sociali”, “gli autonomi”, “i black block” (anche se Repubblica fino a ieri scriveva con noi Book Bloc!), “gli estremisti”, “I violenti”, addirittura gli “anarco-insurrezionalisti”. Altre volte siamo “no global” (anche se un po’ demodé) o la generazione di Genova (trendy solo in occasione del decennale), siamo i giovani precari che Brunetta detesta, gli studenti senza futuro o l’Italia migliore se e solo se si veste di viola o di arancione per esprimere il proprio dissenso.

Appunto dipende dall’umore, dalla penna che scrive e probabilmente, non è da escludere, dall’andamento di Piazza Affari.
I giovani tunisini ed egiziani sono “i giovani umiliati dal potere” (cit. Repubblica) e la loro rivolta è la speranza della democrazia, il vento del cambiamento, la declinazione futura del “si può fare” americano. Ed ancora, a ben guardare, suonano profetiche e universali le parole di Ilvo Diamanti sulla Tunisia: “Il miracolo era finto, come il colore dei capelli del presidente, che a 74 anni lavora di tinta e di brillantina e ha una capigliatura nera come l’antracite. Il vecchio capo, divinizzato, di colpo ha rivelato la sua vecchia carne impotente, ridicolo nell’ossessione di superare perfino la soglia infera con il potere in mano. Su di lui la generazione perduta vuole tirare, finalmente, un frego”. Di quale generazione si parla? E di quale presidente? Questi sono i trucchi del mestiere, a noi non è dato saperlo.

Numerosi dibattiti, proiezioni, iniziative finanziate e cofinanziate da istituzioni pubbliche, partiti, sindacati, media, di ogni genere e grado ha voluto narrare la primavera araba. Il coraggio di ribellarsi, di mandare a casa Ben Ali, Mubarak e via dicendo. “Noi” a volte ci limitiamo a dire “siamo parte di una stessa generazione senza futuro” e cerchiamo di capire e costruire affinità e divergenze, di conoscerci innanzitutto. Andando in Tunisia, in Egitto, a Lampedusa o anche solamente alla stazione Termini, accogliendo i Tunisini o occupando i binari per farci ascoltare da chi impone tagli al nostro futuro, prossimo, concreto, estremamente tangibile. Quasi quasi sembriamo moderati (“noi, i violenti dei Centri sociali etc…”) se confrontati con la retorica entusiasta delle rivolte lontane.

Eppure il 14 dicembre quando migliaia di studenti, giovani precari, persone stufe marce hanno provato ad  arrivare fino a Montecitorio e sfiduciare “dal basso”, dalla piazza, Berlusconi, non c’è stato verso che la cosa piacesse a Saviano…e a chi racconta la primavera araba come lezione di democrazia. O meglio, gli editoriali erano pieni di quei “se” e di quei “ma” che invece oggi, in Val di Susa, il PD chiede di evitare, rispolverando un sempreverde dibattito su violenza e non violenza funzionale a calcoli politici, non sempre ben eseguiti.
Domenica in Val di Susa: “Colpiscono e si ritirano nei boschi, secondo una tattica studiata con cura, perché tra gli alberi i plotoni antisommossa non riescono a seguirli.” Scrive Meo Ponte. "Ho chiamato eroi i valsusini che manifestavano pacificamente, come fanno da anni, per il loro territorio. Sono il primo a condannare e a voler sapere chi sono i black bloc annunciati dai media da giorni. Li trovino, li arrestino". Dichiara Beppe Grillo.

Torniamo nuovamente indietro di qualche mese, per mettere ancor più a fuoco il disordine del discorso e la difficoltà di decifrare la realtà seguendo gli opinionisti: “Ben Ali ha promesso per il 2012 300mila nuovi posti di lavoro e ha assicurato che farà di tutto perché chi è laureato da almeno due anni trovi al più presto una sistemazione. Può essere un bluff, la difesa d'ufficio di chi si sente in difficoltà - la chiusura "sine die" delle scuole e delle Università lo testimonia - perché ha capito che quei giovani come Youssuf e gli altri stavolta fanno sul serio”, scrive Renato Caprile, sempre su Repubblica, l’11 gennaio.

In Italia si ha, effettivamente, l’abitudine di non prendersi troppo sul serio. Abitudine sana per resistere alle difficoltà quotidiane che la nostra generazione incontra, virtù messa a profitto dalle richieste sempre più stringenti di flessibilità e adattabilità del capitalismo avanzato. Vi è però una confusione funzionale alla “riproduzione dello stato di cose” tra ironia e cinismo, tra opportunismo e coraggio. Tra dissentire e organizzarsi per cambiare il mondo in cui viviamo.
Dobbiamo fare in modo però che nessun virtuosismo linguistico offuschi un’evidenza: le piazze europee, così come le montagne italiane tradiscono una composizione sociale simile a quella che è scesa in piazza a Sidi Bouzid o a Piazza Tahir.

Migliaia di donne e uomini più o meno giovani, più o meno istruiti e in generale piuttosto agili nell’utilizzo delle nuove tecnologie della comunicazione, precari, disoccupati, impoveriti, uniti da un’urgenza comune: la libertà. Libertà di movimento, di espressione, ma soprattutto libertà di scegliere e di incidere sul proprio futuro. Proprio come la popolazione della Val di Susa che ha scelto da anni di opporsi al passaggio dell’alta velocità nella valle, facendosi concretamente istituzione autonoma intesa come quel “modello positivo di azione” nella cui filigrana si scorge, se si vuole, un grande esempio di agire democratico.

Concludiamo pensando che tra poco “torneremo a Genova”, ma non per celebrare un rito funebre e guardare con sdegno (e masochismo?) le foto dei massacri alla Diaz e a Bolzaneto e alla ferocia delle forze dell’ordine nelle strade a ridosso della zona rossa. Torneremo, con ancora l’odore dei gas CS (proprio gli stessi di Genova 2001) sui vestiti da montagna e con Fabiano, Jacopino, GianLuca e con gli altri compagni feriti in Val di Susa, arrestati, e torturati con i quali non abbiamo mai smesso di indignarci e di ribellarci all’indifferenza e alla ferocia di cui è capace la nostra democrazia. Proprio come a Piazza Tahir.