Il governo austriaco non sembra intenzionato a fare un passo
indietro. Noncurante delle critiche che da più parti si stanno sollevando
rispetto alla scelta di rafforzare il controllo anti migranti in 12 valichi di
confine con l’Italia, le dichiarazioni del cancelliere socialdemocratico
Hans-Werner Faymann confermano le misure drastiche contro il transito e
l’ingresso di nuovi richiedenti asilo nel paese alpino.
Oltre la “chiusura” dei confini con l’Italia e la Slovenia, l’altro cavallo di
battaglia della ministra dell’Interno Johanna Mikl-Leitner è quello di fissare
un tetto massimo alle richieste di asilo annuali e di prevedere una quota di 80
ingressi giornalieri provenienti dalla rotta dei Balcani attraverso il valico
con la frontiera slovena di Šentilj. Proprio ieri la ministra ha definito la
quota ’’insostenibile nel lungo periodo’’ anticipando che sarà disposta
un’ulteriore riduzione.
Questa zona di confine, da quando nel settembre scorso l’Ungheria ha sigillato
con il filo spinato le sue frontiere, è rimasta l’unico anello della catena di
transito obbligato dei migranti che permette di oltrepassare l’Europa dell’est
e raggiungere quella dell’ovest. Nell’anno 2015 in territorio austriaco sono
transitate circa 700.000 persone provenienti dalla Grecia, mentre quelle che
hanno richiesto la protezione internazionale sono 90.000, poco più dell’1%
della popolazione, ovvero 1 richiedente asilo ogni 95 abitanti. Numeri di poco
più alti se rapportati alle percentuali di altri paesi europei, impercettibili
se messi a confronto con il Libano o la Giordania, ma tali a quanto pare per
generare un isterico processo involutivo di solidarietà.
Chiudere perciò questo "sfiatatoio" della Balkan route, nel momento
in cui perfino il carente meccanismo di relocation è miseramente fallito e si è distanti anni luce da una revisione
strutturale delle politiche europee in materia d’asilo, avrà delle
ripercussioni immediate sulla rotta migratoria provocandone la probabile
deviazione verso l’Italia.
Populismo e nazionalismo
La tragedia del 27 agosto dello scorso anno, quando 71
migranti morirono soffocati in un tir abbandonato sull’autostrada che porta
dall’Ungheria a Vienna, rimane solo uno sbiadito ricordo, ormai cancellato.
L’amnesia generale che attanaglia l’Europa non è in grado di ricordarsi i morti
del giorno prima, figuriamoci quelli di sei mesi addietro.
La scelta politica del governo austriaco oltre che essere eticamente
inaccettabile non ha nessuna base giuridica.
È bene ribadire che non esiste nessuna normativa né direttiva che fissi quote
massime sugli ingressi nei singoli Paesi dell’Unione oppure che indichi il numero
di transiti quantificabili, considerato che il Regolamento Dublino III, de
facto, è stato sospeso (e non superato) proprio per la sua inadeguatezza,
prodotto di una fase dove in Europa non vi erano rifugiati.
Il governo austriaco, al pari dell’Ungheria e di altri paesi, sta quindi
violando le principali convenzioni in materia di diritto d’asilo e quei patti
sociali e di solidarietà sui quali si sarebbe dovuta fondare l’idea di
un’Europa post nazionale e democratica, e che invece sta sprofondando sotto i
colpi degli egoismi nazionalisti e populisti. Le “élites” politiche austriache
stanno consapevolmente mettendo in discussione tutto questo essenzialmente per
due motivi: il primo è che il livello del dibattito è rimasto da campagna
elettorale con il partito della destra xenofoba di Heinz Christian Strache,
successore del ben più noto filo nazista Jörg Haider, in ascesa. La Große
Koalition al governo del Paese ha pensato di competere con la retorica
populista spostando il baricentro del discorso ancora più a destra; il secondo
è per un mero calcolo di ricatto politico da portare al tavolo del Consiglio
europeo.
I socialdemocratici sanno benissimo di essere in una posizione geograficamente centrale per le rotte migratorie, e questo fatto può dare un peso notevole nel direzionare le politiche della Commissione e dell’Unione Europea. Il braccio di ferro dell’Austria, in realtà, è in linea con il volere di tanti (troppi) Paesi membri: la vera grossa coalizione degli Stati nazione anti rifugiati vuole l’immediato blocco dei flussi in entrata nei loro Paesi rafforzando le frontiere esterne e il ripristino sostanziale del Regolamento Dublino, altro che il suo superamento. L’Austria semmai vuole raggiungere un’equa ripartizione della responsabilità soprattutto sul piano finanziario. Se ciò non avviene i singoli Stati si sentono legittimati a risolvere la situazione in modo unilaterale, alla faccia dei principi di solidarietà e delle belle parole.
Ricadute negative sui migranti e nelle regioni di confine
È evidente a tutti che la chiusura dei valichi di frontiera produrrà un immediato effetto domino in primis su i paesi interessati dal flusso migratorio proveniente dalla Grecia. Non c’è da stupirsi perciò se la reazione della Slovenia o della Croazia sarà della stessa intensità. C’è da comprendere semmai i tempi delle prossime sigillature, se questi saranno celeri o meno. Ad oggi è difficile fare una previsione, ma possiamo già immaginare che il primo Paese a subire gli effetti sarà l’Italia, ed in particolare il Friuli Venezia Giulia. Peraltro la zona di confine delle alpi orientali è già ampiamente sorvegliata visto che dall’inizio dell’anno circa 1.000 migranti, che cercavano di entrare in Italia, sono stati respinti proprio verso l’Austria.
Una possibile deviazione della rotta va individuata in questa regione che allo stato attuale non si impegna a sufficienza per garantire un’accoglienza dignitosa ai richiedenti asilo, o la combatte come avviene nella città di Gorizia. Molto dipenderà da come la Slovenia gestirà il corridoio militarizzato e che tipo di intervento di accoglienza temporanea attiverà, se in campi chiusi, violando le norme internazionali sul diritto d’asilo, o lasciando "libere" le persone di scegliere in quale direzione continuare il loro viaggio.
In entrambe le ipotesi le ricadute negative peggiori saranno
tutte sulla pelle dei migranti dilatando il tempo del viaggio e aumentando il
carico di fatica, sofferenza, incertezza, pericolosità ed i suoi costi.
L’altra regione italiana che subirà le imposizioni austriache è il Trentino
Alto Adige / Südtirol, e nello specifico la provincia di Bolzano.
La zona del Brennero, spesso in ombra nel dibattito nazionale rispetto ad
altre, nell’ultimo anno è stata il teatro di sperimentazioni dove si sono
utilizzati gli strumenti temporanei previsti dal Codice delle frontiere
Schengen e la conseguenza, ovvia, di blocco dei migranti. Il lavoro
impeccabile di monitoraggio delle attiviste di "Brenner/o Border
Monitoring" ha analizzato nel dettaglio il laboratorio Brennero.
L’intensificarsi dei controlli sulla base del colore della pelle, la cosidetta
profilazione razziale - racial profiling, operati dalle pattuglie della
Polizia trilaterale di Germania, Austria e Italia, ha ostacolato il transito
dei migranti via treno, rendendo le stazioni del Brennero, di Bolzano e,
sporadicamente, di Trento, dei luoghi giornalieri di selezione della mobilità
umana.
Tutto ciò, ampiamente documentato, ha portato all’impossibilità forzata di centinaia di persone di salire sui vagoni: le stesse sono state costrette a desistere dal loro intento e hanno optato per altri percorsi, oppure hanno atteso i momenti di alleggerimento dei controlli per riuscire a passare la frontiera. Il preludio perciò di quello che potrà avvenire in maniera più intensa è già stato messo in atto e poiché vi è il fondato timore delle organizzazioni sociali che la governance locale sia impreparata - e non voglia - realmente gestire la situazione, il dibattito in questa regione diventerà particolarmente acceso.
A Bolzano, nella città ai primi posti nelle classifiche italiane per la qualità della vita e dei servizi, la certezza è che i diritti dei richiedenti protezione internazionale non sono garantiti, visto che è in atto una palese violazione delle norme sull’accoglienza contenute nel decreto legislativo n. 142 del 18 agosto 2015. La provincia altoatesina, infatti, non garantisce una piena accoglienza a circa 200 richiedenti protezione internazionale, costretti a vivere in strada o in un dormitorio notturno dell’emergenza freddo, lasciati senza cibo e senza servizi essenziali, sostenuti solo dal volontariato locale in tutti i passaggi del complicato iter di richiesta d’asilo.
Una vicenda questa che ci fa capire nella sostanza come la
politica locale sudtirolese non sia così tanto difforme dalle scelte che stanno
operando al di là del passo alpino.
Alla luce di ciò non sarà facile contrastare la spinta verso una gestione
caotica ed emergenziale delle istituzioni locali in ambedue le Regioni, alle
quali verrà comodo immaginare forme restrittive di accoglienza e, in generale,
di de-responsabilizzazione nelle risposte che potranno offrire.