Proibizionismo e sicurezza: il fallimento di un modello

Nota del centro sociale Pedro di Padova

16 / 11 / 2019

Una nota del centro sociale Pedro di Padova su un recente episodio di cronaca, che chiama in causa il fallimento di un modello basato su una visione proibizionista e securitaria della società.

È di ieri la notizia di un rocambolesco inseguimento fra polizia e baby pusher tunisini per le vie dell’Arcella.

Accade che un gruppo di residenti preoccupati si accorge di un via vai sospetto di giovani in via Bolis, al confine nord del quartiere Arcella. Sono giovani che non avrebbero alcuna ragione di frequentare quelle vie, e due ragazzini catturano l’attenzione dei residenti. I ragazzi sono due giovanissimi di 15 e 16 anni arrivati via mare dalla Tunisia, e sembrano essere al centro di un’attività di spaccio, il che fa scattare le segnalazioni e il pronto intervento della polizia, che durante un controllo ferma i due sospetti (e non dopo un rocambolesco inseguimento, come scrivono i media locali spettacolarizzando l’accaduto), trovandoli in possesso di 21 dosi di cocaina e quasi 3mila euro in contanti. I due vengono quindi arrestati e «messi dietro le sbarre» del carcere minorile di Treviso.

È una notizia che offre molteplici elementi di riflessioni.

In primis abbiamo l’elemento sicurezza: l’ossessione securitaria dei residenti, che li porta a reputare sospetti dei giovani stranieri solo perché improvvisamente si incontrano e stazionano nella loro via. Già questo implica la presenza di un’alterità rispetto ai residenti che se si manifesta va controllata, poiché sospetta di condotte necessariamente devianti. 

Questa è la stessa ossessione che alimenta l’insieme di dispositivi messi in campo nelle città allo scopo di prevenire il crimine, dal dispiegamento di oltre 4000 telecamere al progetto dell’associazione del Controllo del Vicinato (avviato proprio nel quartiere Arcella) che criminalizza gli “ultimi”, esattamente come in questo caso, sulla cui utilità conserviamo tutti i dubbi possibili.

Abbiamo però un secondo elemento, poiché i giovanissimi ragazzi tunisini di fatto vanno a confermare lo stereotipo dei residenti: vengono trovati in possesso di 21 dosi di cocaina e numerosi soldi in contanti, dalla polizia. È da qui in poi che si esplica, in tutta la sua pienezza, il fallimento dello Stato.

È il fallimento di uno Stato incapace, volutamente miope e criminogeno, che non è in grado di fornire alternative migliori rispetto allo spaccio a due ragazzi di 15 e 16 anni tunisini, approdati in Europa - il 19 settembre a Lampedusa il più grande e il 25 febbraio a Salerno il più piccolo - in cerca di opportunità migliori. 

È il fallimento di uno Stato che a minori non accompagnati intraprendenti e con voglia di riscatto non sa offrire altro che una gincana fra centri di accoglienza, centri minorili, offrendo il peggio del peggio di una integrazione oramai scomparsa, grazie ai tagli nel settore, allo smantellamento sistemico dell’accoglienza da parte dei vari governi che si sono alternati in questi anni, riducendo la persona a una condizione di totale dipendenza.

È poi il fallimento tangibile di anni e anni di politiche proibizioniste, di una lotta alle droghe e ai consumi perseguita unicamente con strumenti repressivi, incapace di minime lungimiranze che possano mettere in campo politiche che riconoscano che se c’è offerta da un lato è perché c’è domanda dall’altro, e forse si coltiverebbe meglio la sicurezza di tutti mettendo in campo politiche volte alla sensibilizzazione e alla tutela. 

Un proibizionismo di Stato che non ha alcun interesse nello smantellamento delle narcomafie, utile elemento di riciclo per le liquidità del nostro sistema economico, ma che fa del contrasto ai piccoli e medi spacciatori di strada il proprio vanto, specie se corrispondenti al profilo del giovane maschio non bianco.

È un fallimento sistemico e scientificamente voluto. E forse è proprio su questo che torna utile un approccio non critico e radicale, ma “funzionalista” nel cercare di analizzare e comprendere il perché. Ciò succede proprio perché è assolutamente funzionale alla riproduzione del nostro sistema economico, politico e sociale. Perché è necessario creare le precondizioni per impedire percorsi di accoglienza per i giovani migranti che arrivano oggi in Italia, tagliare i servizi di integrazione nel territorio. Tutto questo vede come unica alternativa possibile, per rendersi autonomi e indipendenti, la fuga dal parcheggio dell’accoglienza e il rivolgersi al mercato delle economie illegali, dominato dallo sfruttamento di organizzazioni criminali o da parte di diversi caporali sparsi per il territorio nazionale (è sempre di ieri la notizia della paga in provincia di Empoli pari a 1,28€ all’ora), per racimolare un minimo di reddito.

È altrettanto necessario che queste economie illegali avvengano nello spazio pubblico urbano, siano visibili ed evidenti, che vadano quindi a confermare lo stereotipo, propagandato e narrato dai vari media in una sorta di ciclica profezia che si auto-avvera. Questo convoglia l’insicurezza collettiva, causata da una molteplicità di concause (dall’impoverimento generalizzato al cambiamento climatico), verso una causa più immediata e diretta e in un certo senso risolvibile: la micro-criminalità e le “piccole inciviltà” degli stranieri che vivono lo spazio pubblico diventano un fenomeno da reprimere e reprimibile, risolvibile attraverso l’arresto, i controlli e le retate, e il cittadino perbene può constatare il lavoro delle forze dell’ordine e delle amministrazioni. Il tutto lasciando intoccate le reti criminali che lucrano attorno allo sfruttamento dei tanti che sopravvivono grazie alle economie illegali.

È quindi la sistematica riproduzione dello stigma sociale, del panico morale e moralistico, il cui personaggio principale, protagonista è il corpo non immediatamente bianco, maschile, adulto, lavoratore ed eterosessuale. Ed è quindi un consenso politico-elettorale costruito e fondato sul mantenimento di un insieme di soggetti stigmatizzati e stigmatizzabili.

Ma abbandonando questo livello macroscopico di analisi, la cronaca riguarda un quartiere complesso come quello dell’Arcella, dove migliaia di migranti, studenti, anziani etc ogni giorno si incontrano/scontrano a partire dalle rispettive necessità e bisogni. Un quartiere che conosciamo bene, dove sono ben evidenti una serie di operazioni di speculazione, edilizia e immobiliare in primis (basti tenere sotto occhio la crescita inarrestabile dei canoni di affitto o i progetti di riqualificazione di diverse zone a firma Renzo Piano che ogni settimana occupano i titoli dei giornali locali). Sono processi di gentrificazione che necessitano pulizia di tutti quei corpi che non possono permettersi il nuovo stile di vita, una pulizia condotta reprimendo gli spazi pubblici, rendendoli sempre più sotto controllo e oggetto delle nuove sperimentazioni in ambito repressivo e securitario.

Un quartiere che però ogni giorno si dimostra essere un laboratorio di partecipazione e attivazione da parte dei suoi molteplici abitanti. A partire dalla numerose associazioni, realtà sportive, gruppi informali, cooperative e tante e tanti altri che anche singolarmente animano le piazze e gli spazi del quartiere, con offerte culturali, con servizi di mutualismo e di cooperazione sociale, volti all’inclusione e aperti a tutte e tutti. Nel quartiere dove noi abbiamo il nostro centro sociale e le numerose attività e progettualità che portiamo avanti all’insegna dell’anti-razzismo, dell’anti-fascismo e dell’anti-sessismo, e continueremo a preferire al controllo di vicinato il rapporto di vicinato, a quella cittadinanza che si attiva per discriminare e ghettizzare chi si impegna per abbattere muri e confini di esclusione nel luogo in cui vive.

È a partire da questo che è necessario ribaltare l’intera questione e non soffermarci sul mero fatto di cronaca, al contrario di politicanti nostrani che festeggiano l’avvenuto arresto: è da ripensare quale modello di città vogliamo, ripensare il sistema di accoglienza e constatare che il proibizionismo da un lato e il securitarismo dall’altro hanno platealmente fallito nella loro missione.