Ponte sullo Stretto: di grandi opere inutili e della loro capacità di attivare flussi finanziari

Intervista a Luigi Sturniolo (Rete No Ponte)

12 / 7 / 2019

A distanza di anni, il 26 luglio (ore 18:00, concentramento in via Circuito) si terrà una nuova manifestazione contro il ponte sullo Stretto di Messina. Un progetto caro alle governance territoriali e nazionali, che da decenni ormai tornano a promuoverlo con preoccupante regolarità. Una grande opera che, pur nella sua inesistenza, ha spostato ingenti capitali da destinare piuttosto alle infrastrutture di prossimità e alla messa in sicurezza di territori sfruttati. Si tratta di un'opera che avrebbe ripercussioni i devastanti in termini di impatto ecologico, ma la cui capacità di mobilitare flussi di denaro sovrasta ogni altra voce. Per tracciare il quadro della situazione abbiamo intervistato Luigi Sturniolo della Rete No Ponte.

Il ponte sullo stretto viene presentato come un progetto innovativo capace di potenziare la mobilità facilitando le comunicazioni e in grado di produrre posti di lavoro. Una narrazione piuttosto efficace, se si pensa ai territori siciliani e calabresi, in cui le infrastrutture viarie, ferroviarie e navali risultano spesso inadeguate e in cui il tasso di disoccupazione è tra i più alti in Europa. E tuttavia, ad oggi non esiste alcun un progetto definitivo, né una singola pietra è mai stata posata. Perché allora si torna, con preoccupante regolarità, a rispolverare l’idea e sono stati spesi 300 milioni di euro in consulenze e progettazioni? Cui prodest? Perché i finanziamenti non vengono distribuiti per la messa in sicurezza dei territori?

Verrebbe da dire che sia troppo innovativo. Il Ponte sullo Stretto sarebbe un ponte sospeso, un ponte con una campata unica lunga 3.300 metri. Scorrendo la storia dei ponti a campata unica si vede che nel 1931 venne costruito il George Washington Bridge (1067 m.), nel 1937 il Golden Gate Bridge (1280 m.), nel 1964 il Verrazzano Narrows Bridge (1292 m.), nel 1981 l’Humber Bridge (1410 m.) e nel 1998 lo Storebaelt Bridge (1624 m.) e l’Akashi Kaikyo Bridge (1991 m.). Nel caso del Ponte sullo Stretto si assisterebbe, dunque, ad un “salto” progettuale anomalo rispetto alla gradualità della progressione cui si è assistito fino ad oggi. I rischi di una campata unica così lunga sono stati evidenziati da Remo Calzona (ex presidente della Commissione tecnico-scientifica che doveva verificare la fattibilità dell’opera) nel suo libro “La ricerca non ha fine” nel quale individuava i pericoli dei fenomeni di “galopping” (patito dal Ponte di Storebaelt) e “fletter” (crollo del Ponte di Tacoma).

D’altronde, la “grandiosità” dell’opera, il suo carattere fortemente evocativo e “riscattante”, la percezione di abbandono delle popolazioni meridionali, appare ancora oggi come il dispositivo più difficile da decostruire. Gli altri argomenti si sono, infatti, consunti nel tempo, non hanno retto alle evidenze. Il saldo occupazionale delle Grandi Opere si è rivelato fortemente deficitario rispetto ad altri interventi come la messa in sicurezza dal rischio idrogeologico o il riammodernamento dell’edificato. Stessa fine ha fatto la retorica sulla auto-sostenibilità finanziaria del Ponte sullo Stretto. Questa era fondata su previsioni di crescita degli attraversamenti nello Stretto di Messina risultate del tutto infondate (esattamente come avvenuto per la tratta che interessa il progetto del TAV Torino-Lione).

Non recente, ma fortemente rinnovato dal dibattito pubblico sulla cosiddetta Via della Seta, è l’argomento a sostegno del Ponte secondo il quale l’infrastruttura consentirebbe di intercettare le Grandi Navi portacontainer provenienti da Suez. Queste, al contrario, puntano ai porti di Rotterdam, Genova e Trieste per evidenti ragioni di economicità. 

Se, dunque, oggi si torna a parlare di Ponte sullo Stretto non è per ragioni funzionali allo sviluppo della Sicilia e del Sud, ma per, da una parte, attivare un dispositivo di distrazione dell’attenzione dall’inconcludenza di una classe politica disperata e disperante, incapace di avere idee per il futuro dei nostri territori e, dall’altra parte, riattivare quel canale di spesa pubblica che ha consentito negli anni di far fluire a contractor e progettisti centinaia di milioni di euro (312 mln certificati nei bilanci della Stretto di Messina Spa, società concessionaria per la progettazione e costruzione del Ponte) senza alcun vantaggio per gli abitanti. È la storia delle grandi opere. “Il Ponte lo stanno già facendo” è stato a lungo il nostro slogan per indicare la politica delle “Mucche da mungere”.

Così come il progetto del ponte sullo stretto, anche la lotta NoPonte ha una storia lunga decenni. In che modo si è evoluta nel corso del tempo? Appare interessante la scelta di definirsi Rete No Ponte, piuttosto che “comitato”: c’è una differenza sostanziale tra le due configurazioni?

Le sensibilità che hanno contribuito alla mobilitazione contro la costruzione del Ponte sullo Stretto sono state molteplici e molteplici i percorsi, che di volta in volta si condensavano nelle grandi scadenze unitarie (i cortei, i campeggi di lotta). È stata questa natura molteplice, non senza dissidi, rotture e ricomposizioni, a fare sì che lo strumento della rete si manifestasse come quello più efficace per far convivere le diverse anime del movimento. E se gli anni ‘90 sono stati quelli del pronunciamento teorico, della convegnistica, è dal 2002, con il primo campeggio di lotta e il primo corteo a Torre Faro (luogo dove sarebbe dovuta sorgere la torre messinese del Ponte), che il No Ponte diventa mobilitazione di piazza. Questa, nella sua lunga storia, incrocerà la storia dei movimenti e da questi riceverà militanti. Il suo inizio si è accompagnato, sul piano locale, al movimento contro l’attraversamento della città di Messina da parte dei Tir (una lotta durata mesi, con continui blocchi stradali, terminata con le cariche della polizia dentro gli imbarcaderi della Caronte&Tourist) e, sul piano nazionale, alle Giornate di Genova e al movimento No Global. L’ultima fase, invece, incrocerà il movimento dell’Onda degli studenti e da questa mutuerà l’idea della “Marea”, tanto che l’ultimo corteo, quello del 2013, a iter ormai interrotto, chiede ai partecipanti di non portare striscioni e bandiere d’organizzazione. La Rete, ormai, non era più un’alleanza di più organizzazioni, movimenti, comitati, associazioni, ma un’aggregazione di militanti. È da sottolineare che la crescita del Movimento No Ponte giocherà un ruolo fondamentale nella proposta della candidatura a sindaco e poi nella vittoria elettorale di Renato Accorinti. 

La ripresa delle mobilitazioni, a distanza di sei anni dall’ultimo corteo, sconta l’essere riusciti a fermare il Ponte, ma non a conquistare quelle infrastrutture di prossimità (ammodernamento della rete stradale e ferroviaria, difesa del territorio dal rischio idrogeologico, messa in sicurezza dei centri urbani, manutenzione della rete idrica) che erano nella piattaforma del movimento. Il SÌ al ponte ha riconquistato una parte del consenso e, in generale, un sentimento di diffidenza ha ripreso il sopravvento. Ricostruire il movimento significa, dunque, oggi investire le realtà organizzate (comitati, sindacati, partiti, centri sociali, associazioni) della responsabilità di rilanciare la lotta affinché si impedisca la riapertura dell’iter del Ponte e si ricostruisca un’idea di futuro per i nostri territori. Il lungo elenco di adesioni, e soprattutto la loro trasversalità, al corteo è sicuramente confortante per la fase che si apre.

Con l’incombere degli effetti catastrofici del cambiamento climatico anche in Occidente, anche le lotte territoriali hanno rivisto il proprio orizzonte d’azione. Le battaglie contro le grandi opere hanno ridefinito il proprio carattere locale riconoscendo nelle battaglie di tutto il mondo una matrice comune: il mito dello sviluppo, alimentato dalla gestione capitalista del vivente. Il ponte sullo stretto altro non è che un superbo esempio: un’infrastruttura costosissima, con impatto ambientale devastante, prevista in un tratto soggetto a particolari condizioni metereologiche che aumentano il rischio di incidenti. A questo, si aggiunga che l’opera avverrebbe in territori da sempre preda di speculazioni e sfruttamento intensivo. L’incrocio tra questo piano, più globale e complessivo, e l’azione storica della Rete che esiti ha avuto? Ha allargato la riflessione e ha facilitato la cooperazione con altri comitati e movimenti?

C’è un aspetto che ricorre nel discorso pubblico favorevole al Ponte. È l’atteggiamento fideistico nei confronti del valore progressivo dello sviluppo tecnologico, ingegneristico in questo caso, in quanto ricaduta positiva della ricerca scientifica. Eppure l’evidenza ci mostra esattamente il contrario. La contraddizione tra modello di sviluppo e natura è palese al punto tale da mettere in discussone l’esistenza stessa della specie in tempi prossimi alle nostre biografie. Di fronte alla crisi della razionalità occidentale appare, dunque, di retroguardia, addirittura provinciale, assumere l’opera ingegneristicamente ardita come manifestazione di progresso. D’altronde, il luccichio che vorrebbe avvolgerla nasconde gli scavi devastanti (8 milioni di metri cubi di inerti da collocare in discariche che aggraverebbero il rischio idrogeologico che grava già sui nostri territori); la trasformazione del paesaggio da Stretto a doppia baia romperebbe l’immaginario culturale della nostra identità; le opere di accesso sarebbero un’ulteriore ferita nelle nostre colline; le dimensioni dell’impalcato sarebbero di ostacolo alle specie che attraversano lo Stretto. 

L’essere SÌ Ponte o NO Ponte non rappresenta più, dunque, l’espressione di un giudizio favorevole o meno su un’opera pubblica. La stessa logica della valutazione costi-benefici perde di significato di fronte alla necessità di difendere il territorio, di “conservarlo” alle future generazioni. La lotta No Ponte assume, dunque, un carattere fortemente politico perché espressione di una lotta più globale tra uso funzionale del pianeta agli interessi di una ristretta élite e futuro del pianeta stesso. Certo, assumere un punto di vista del genere a Sud, in territori che sono stati sganciati dai flussi finanziari e dove la stessa sopravvivenza per moltissime persone è a rischio e intere generazioni stanno andando via alla ricerca di opportunità, è difficile. Allo stesso tempo è, però, un’occasione di agire positivamente nei punti deboli dei processi economici, provare per una volta almeno a non essere la controparte dialettica dello sviluppo del capitalismo. Questa volta è d’obbligo uscire dalla crisi senza una shock therapy, perché la catastrofe che incombe sarà irreversibile.

Quest’estate, il 26 luglio, ci sarà nuovamente una manifestazione No Ponte a Messina dopo molto tempo. Quali sono le parole d'ordine?

Chiudere definitivamente la Stretto di Messina Spa, società in liquidazione da 4 anni e che continua a dilapidare milioni di euro ogni anno, significherebbe disattivare il meccanismo societario alla base dell’iter del Ponte. Il protagonismo pontista del Governatore della Sicilia Nello Musumeci, dei sindaci di Messina e Villa San Giovanni, di gran parte della deputazione siciliana, di sindacati importanti come la Cisl, dell’Ance, di gran parte della stampa locale lascia, infatti, presupporre che un mutamento degli equilibri governativi porterebbe alla riattivazione dell’iter di progettazione e costruzione. Di certo appare lontana la costruzione del manufatto (reperire 8,5 miliardi di euro è oggi una prospettiva inarrivabile), ma per chi specula sui territori la grande opera migliore è quella che non si conclude mai, ma che attiva flussi finanziari con una certa continuità.

C’è, poi, un altro corno della nostra lotta. È la conquista di risorse per il territorio e per i suoi abitanti. Darsi una possibilità di futuro significa conquistare una redistribuzione delle risorse tale affinché questo sia possibile. Dotare i territori di infrastrutture di prossimità significa scommettere su opere fatte perché i giovani possano restare nella propria terra, significa pensare al territorio non come un intralcio, spazio da svendere, monetizzare, per le ultime briciole a disposizione. 

Dovremo liberarci da una politica perennemente col cappello in mano. Riprenderci il futuro.