Pomigliano, l'i-pod e la crisi

di Antonio Musella e Fabrizio Andreozzi

5 / 3 / 2009

"Pensai “Wow ce l’ho fatta ! Avrei potuto rovinare la macchina!”, poi pensai “Perche’ no?”. La pressa avrebbe funzionato, ma alla fine i cilindri avrebbero consumato l’alluminio, e tanti saluti. Quelle macchine funzionavano a grande velocita’ ventiquattro ore al giorno, pensai che c’avrebbe impiegato da due settimane ad un mese a guastarsi. Non l’avrei fatto se non avessi odiato quel posto!"
da “Sabotaggio negli Usa” di Martin Sprouse, 1998

Nessuno sciopero generale recente, generale o generalizzato che sia, ha mai raggiunto le adesioni dello sciopero dello scorso 27 febbraio a Pomigliano d’Arco. Un territorio che si e’ fermato interamente con un adesione pressocche’ del 100% allo sciopero. La storia della provincia a Nord di Napoli e’ legata a filo diretto con lo stabilimento Fiat di Pomigliano, una intera economia che oggi sta crollando sotto i colpi della crisi con 5.000 operai in cassa integrazione in Fiat piu’ l’indotto, ed un intero sistema di sostentamento di una fetta importante della provincia ed anche della citta’ di Napoli che rischia la poverta’ assoluta. Una mobilitazione, quella degli operai della Fiat di Pomigliano d’Arco che nasce dalla capacita’ di coniugare, al tempo della crisi, reali processi ricompositivi, unendo proprio l’elemento della territorialita’ come elemento di cementificazione dei percorsi di ricomposizione sociale. Per la prima volta a Pomigliano, attraverso un’esperienza importante per le lotte sociali di questo paese, si e’ usciti finalmente dalla dinamica della lotta degli “operai per gli operai”, riuscendo finalmente a rompere quella gabbia di marginalita’ e autoreferenzialita’. Circa 7 anni fa a Termini Imerese il movimento dei movimenti davanti a quei cancelli sognava percorsi moltitudinari capaci di rilanciare in avanti il conflitto nel paese sui temi del welfere e del reddito. A Pomigliano abbiamo assistito alla costruzione del Comitato in solidarieta’ con gli operai Fiat e dell’indotto, un percorso ricompositivo all’interno del quale sono confluiti i sindacati confederali e quelli di base, le istituzioni locali e dei comuni limitrofi e le parrocchie del territorio, i movimenti, i comitati, gli studenti. Un percorso nuovo, che porta il piano del conflitto sociale all’interno della societa’, riuscendo a costruire, con tutti i limiti del caso, un esempio importante per la messa in rete di quelle esperienze di movimenti che negli ultimi mesi si sono affermate sui territori e non solo come il movimento dell’Onda e quello in difesa dei beni comuni.
Allo stesso modo Pomigliano ci dà la possibilita’ di aprire un’ulteriore spazio di ragionamento sulla crisi, e su come, molto concretamente, mettere mano alla costruzione degli spazi di conflitto.
Ma allo stesso modo lo spazio di riflessione sulla crisi, i suoi effetti ed i percorsi di ricomposizione di classe all’interno della quale vediamo la tendenza, la vicenda di Pomigliano ci apre uno scenario su quella che e’ l’attivita’ sia del governo sia dei sindacati davanti alla crisi.
La crisi è accompagnata da una crisi delle forme del comando politico, rispetto alle figure della sovranità statale, sia ai modelli di governance affermatisi nel mercato globale. Nessun organismo si è dimostrato capace di regolare e governare il mercato.
La “crisi globale”, che si appresta ad entrare nella fase più complessa ha assunto le caratteristiche di una crisi strutturale, con un sistema economico destinato a non tornare piu’ sugli standard e gli assetti precedenti.
Una profonda metamorfosi quindi.
Le banche chiedono aiuto ai governi, che stanno curando i sintomi iniettando massicce dosi di liquidità per impedire il collasso, ma che dovrebbero adoperarsi per eliminare quegli elementi speculativi che l’ingegneria finanziaria ha introdotto in maniera così spropositata.
Il fatto è che si tenta di costruire la teoria di una “crisi epocale” per mascherare il “lavoro” che l’industria del risparmio ha fatto per gli investitori.
Una scorciatoia per non rispondere delle perdite dei clienti dopo l’illusione di facili guadagni. Una strategia per oscurare l’incapacità di tutelare i patrimoni gestiti.
Il 95% della banca centrale italiana è proprietà delle banche private.
Tutte le spese in disavanzo degli Stati, ossia quelle spese non coperte dalle entrate (tasse, ecc...) vengono finanziate con i prestiti a debito delle banche private, che si tramutano in debito pubblico. Per cui il debito pubblico è una farsa, perchè fondato sul prestito da parte delle banche di un bene che non e' reale in quanto l'emissione di moneta da decenni non e' legata ad alcune riserva aurea o valutaria che sia.
Le banche, dunque, emettono prestiti che non rappresentano altro che numeri su un pc, in cambio, in caso di insolvenza, di beni reali: case pignorate, aziende confiscate, miniere d'oro di diamanti ecc.
Quando le banche falliscono in realtà non falliscono affatto, semplicemente esauriscono la propria missione... cedono beni inutili (il denaro) in cambio di beni reali (case, aziende, miniere...).
Ora: per quale motivo gli stati, grandi debitori delle banche (debito pubblico 105% circa in italia) dovrebbero sovvenzionare le banche in crisi con denaro, preso a sua volta a debito?
Non siamo certamente alla fine del mondo. Quasi certamente siamo alla fine di un modello di sviluppo.
Governo e sindacati si limitano a parlare di “nessun posto di lavoro da perdere”, i sindacati chiedono “piani di ristrutturazione” che significa per la Fiat, banalmente, una nuova macchina da produrre, e gli stessi denunciano che i fondi pubblici per gli incentivi alla rottamazione non vengono legati dal governo, come invece fanno i governi di Francia e Germania, alla garanzia della continuita’ occupazionale per gli operai.

Preservare posti di lavoro, come atto politico a se stante, mediante aiuti alle imprese attraverso finanziamenti di stato è senz’altro un provvedimento miope, in quanto, la crisi del sistema industriale italiano è strutturale e inserita in un contesto di problematicità altrettanto strutturale, quale quello globale.
Il sistema industriale italiano, dal settore manifatturiero a quello automobilistico, fino al siderurgico non è competitivo sulla scena internazionale e non si può pensare di arrancare in questi campi per “fare la corsa” sui nuovi colossi mondiali, India, Cina e Brasile su tutti.
Aiutare un sistema industriale in crisi strutturale, si potrebbe dire in uno stato comatoso, impossibilitato a divenire competitivo significa non avere in mente nessuna prefigurazione di scenario possibile di uscita dalla crisi, porre l’ennesimo rimedio fine a se stesso, sperperare denaro pubblico nell’interesse dei potentati economici, restii alla perdita del proprio ruolo economico e politico.
Si può pensare di affrontare la crisi di un sistema di produzione con gli aiuti statali? Con un piano assistenzialista che esclude i potentati economici dalla possibilità di “pagare la crisi” e cedendo al ricatto di questi circa l’eventualità concreta di ricorrere a “cassa integrazione di massa” e licenziamenti?
La Gran Bretagna, nel recente passato, ha subito e risolto una crisi del proprio sistema industriale, basato sulla produzione materiale, ricorrendo ad un nuovo modo di intendere la produzione e quindi l’occupazione.
Un sistema occupazionale fondato sul terziario, sui servizi. Magari in Italia sul turismo, sullo sfruttamento delle potenzialità in materia di patrimonio artistico, culturale, ambientale, ricerca e sviluppo ecc.
Si può pensare di far fronte ad un crollo quotidiano della quantità di merci importate ed esportate nei mercati internazionali, della quantità di moneta circolante, attraverso il tentativo di rianimarsi su un terreno che è ormai sconfitto?
Il capitalismo di questo paese e’ rappresentato da degli straccioni con il rolex sul polsino....
Un capitalismo parassitario, legato a doppio filo coi meccanismi esclusivi di rendita, incapace di immaginarsi diversamente dalle funzionalita’ acquisite nei decenni, un capitalismo che si e’ letteralmente mangiato il patrimonio pubblico con le privatizzazioni sfrenate e selvagge.
Nel resto del mondo si parla della green economy e noi vogliamo uscire dalla crisi con l’Alfa 149....
Ed intanto , gli stessi che pensano di poter continuare a produrre scatolette di alluminio con quattro pneumatici mentre nel bacino del Mediterraneo un I-Pod costa meno sulle altre sponde che in Italia, affrontano la crisi affondando le mani nell’ennesimo saccheggio del Sud.
Il governo del Nord infatti ha letteralmente dirottato i fondi Fas per lo sviluppo del Mezzogiorno, fondi europei per il Sud per il periodo 2007-2013, ed ultima occasione per l’Italia di usufruirne prima dello spostamento dei fondi nei paesi dell’Est.
I Fondi Fas servirebbero per gli ammortizzatori sociali, dovrebbero essere gestiti interamente dalle regioni e dovrebbero contribuire a fronteggiare la crisi con interventi sociali come il reddito di cittadinanza ad esempio. Invece i fondi Fas sono stati spalmati dal governo del Nord con la complicita’ dei governatori delle Regioni del Sud sull’intero fondo nazionale di cassa integrazione (Cig). Per una semplicissima considerazione, ovvero che esistono piu’ occupati al Nord che al Sud, i fondi per lo sviluppo del mezzogiorno oggi stanno fronteggiando la crisi garantendo le perdite degli imprenditori di Bergamo o Verona ed alla Regione Campania restano solo 230 milioni di euro per gli ammortizzatori sociali e 140 mila famiglie al di sotto della soglia di poverta’, ovvero al di sotto dei 5.000 euro all’anno di reddito !
Allo stesso modo il Ministero dell’Interno , con il ministro del Nord Maroni, dirotta i fondi Fas per finanziare il nuovo decreto per la costruzione dei nuovi C.i.e.
La maggior parte di essi saranno recuperati da strutture gia’ esistenti, mentre quelli da costruire, come quello in Campania, saranno costruiti con i fondi Fas, come se lo sviluppo del mezzogiorno passasse per la costruzione di campi lager per migranti.
Ancora una volta le dinamiche di crisi contribuiscono a sedimentare la condizione di sottosviluppo del Sud del paese. L’economia del Sud come sottosviluppo in quanto subalterna allo sviluppo dell’economia del Nord, un tempo come ci spiego’ Luciano Ferrari Bravo, il Sud era esercito di manodopera a basso costo grazie al fenomeno dell’emigrazione interna, oggi “discarica del Nord produttivo” su cui far gravare i costi per pagare la crisi. Bisogna fissare il concetto della separazione Nord/Sud nel paese come strumento quadro della pianificazione economica. Un dualismo, quello Nord/Sud, che cosi’ come negli anni ’50, non puo’ essere semplicemente accettato, ma deve essere condizione per lo sviluppo rapido ed effettivo.
Ma e’ l’idea stessa di sviluppo e di fronteggiamento della crisi nel nostro paese che continua ad essere malsana e fuori dalle prospettive globali, vittima della rendita e di un capitalismo parassitario. Cosi’ come pensiamo di uscire dalla crisi con l’Alfa 149, pensiamo di poterlo fare con le centrali nucleari mentre in tutto il mondo si investe sulle fonti rinnovabili a basso costo di produzione.
Oggi come ieri siamo davanti ad una fabbrica che produce automobili, e parliamo, oggi come ieri, di liberazione dal lavoro introducendo le categorie di liberta’ contro crisi e reddito contro rendita.
Questo ci racconta della complessita’ della fase che stiamo vivendo e della necessita’ improcrastinabile di fare i conti oggi piu’ che mai con le condizioni materiali di vita nel nostro paese. Ai cancelli di Pomigliano, Cassino , Termini Imerese, Mirafiori, abbiamo la necessita’ di far comprendere che le trasformazioni in atto a livello globale oggi devono portarci a meccanismi di liberazione dal lavoro e non di annullamento nel lavoro. Esempi di operai che chiudono accordi lavorando di piu’ e guadagnando di meno per evitare licenziamenti non possono rappresentare un modello da portare da esempio ! Se siamo in un fase in cui sul piano biopolitico il concetto del “rifugio”, della “protezione”, diventa ogni giorno piu’ concreto appare evidente che possiamo spostare in avanti il piano del conflitto solo se usciamo da una logica che vuole far pagare a noi la crisi e garantire i potenti.
Davanti a questo si comprende che “Noi la crisi non la paghiamo” non e’ solo uno slogan...
Su questo terreno se da un lato guardiamo alla importante esperienza di Pomigliano rispetto al modello organizzativo della lotta, ovvero la tendenza ad una ricomposizione di classe, dall’altro non possiamo far altro che misurarci con i limiti del mondo sindacale, oltre che con quelli del governo, nell’immaginare soluzioni davanti alla crisi che possano avere una prospettiva reale.
I meccanismi di riproduzione del capitale e i meccanismi di riproduzione della moltitudine devono rompere il sincrono. E’ ovvio che davanti a questo tentativo lo Stato contrapporra’, come gli operaisti ci insegnano, separazione e gerarchizzazione del lavoro produttivo, e ne sono conseguenza le recenti norme sullo sciopero e sulla rappresentanza sindacale. La necessita’ e’ trasformare quello che per lo Stato – rendita e’ divisione, corporativizzazione e comando in unita’ ed eguaglianza, contrapporre alla sussunzione del lavoro processi di autovalorizzazione con alla base l’unita’ del lavoro produttivo sociale . In sintesi davanti alla ricerca di simultaneita’ dei processi di produzione ricercati dal capitale dobbiamo sviluppare indipendenza e discontinuita’. Ed e’ per questo che il problema del salario e della spesa pubblica deve assumere centralita’ nel rapporto antagonistico con il capitale.
Come dire che l’Alfa 149 con i reparti di confino, la cassaintegrazione per 10 settimane all’anno, l’aumento dei ritmi di lavoro a parita’ di salario, non salveranno mai gli operai di Pomigliano, ma la famiglia Agnelli dalla crisi. Con questo ovviamente non si afferma che l’operaio di Pomigliano non va salvato, ma che le prospettive di trasformazione che la crisi ci porta devono vederci misurare con processi di trasformazione sociale reale. Altrimenti gli straccioni resteranno sempre con il rolex al polsino e nessuno glie lo rubera’ mai....

Vedi anche:
Pomigliano in 20 mila contro licenziamenti e cassaintegrazione

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