Politicizzare "la cura"!

20 / 3 / 2020

Mentre stiamo lentamente prendendo confidenza con i necessari mutamenti della nostra quotidianità, mentre molt* cercano di resistere al panico mediatizzato che martella ogni istante della reclusione in quarantena, ormai qualunque sito, blog, profilo, pagina degli ambienti di movimento cerca di dare una lettura delle conseguenze a breve e medio periodo dell’epidemia. A voglia poi che la quarantena ti permette di leggere la pila di libri che continuavi ad accumulare da anni, a guardarti tutte le stagioni delle serie tv immaginabili, o a realizzare il benedetto orto in terrazza.

Tutto il giorno a esaminare l’ennesima lettura dell’ennesima grande testa, che ti fa cascare le braccia o ti fa arrovellare il cervello in cerca di risposte alle infinite domande emerse, risposte che non trovi e allora vai di assemblea telematica e via così ancora e poi ti fai l’ape in skype e poi lo vogliono far tutt* e allora «boom!». È tardissimo meglio se vado a dormire.
Tutto questo ovviamente nel migliore dei casi, cioè se una casa ce l’hai, se sei in una casa con un ambiente vagamente rilassato, se puoi leggere, se hai libri, se hai la connessione a internet e via così…
In ogni caso c’è una parola che nelle ultime settimane svetta tra le classifiche delle più usate e abusate: cura. Tutto un invito al prendersi cura di, all’eroismo del lavoro di cura di medic* e infermier*, alle pezze al culo con cui si ritrova chi fa lavoro di cura salariato (tendenzialmente salari da fame) fino alla pole position concessa al termine: addirittura il decreto economico “Cura Italia”.
Il sentimento è condiviso, l’abuso del lemma risulta insopportabile, visto che poi chi lo sta veicolando a livello mainstream è soprattutto chi della cura non si è mai curato. Lo hanno detto in tant*, una delle straordinarie capacità della crisi pandemica in atto è quella di disvelare contemporaneamente tutti i limiti, le bugie, i disastri di capitalismo e neoliberismo. Il virus mostra le conseguenze di tagli continui alla spesa pubblica, alla sanità in particolare, ma non solo. Svela come il principio neoliberista dell’iper individualizzazione non conduca verso una strada di maggior benessere, qui la responsabilità individuale non è capace di contrastare il mostro. Anche perché come si può pensare che vi sia una tranquilla e accurata presa di responsabilizzazione del singolo nei confronti della comunità quando per decenni le forze politiche ed economiche non hanno fatto altro che renderlo più sol*, più sospettos*, più incazzat* e depress* che mai? Pensa al più debole, pensa all’anzian*, all’immunodepress* che tranquill* anche stavolta nessun* penserà a te. I movimenti femministi sostengono da anni la centralità della cura, partendo dal sé e arrivando alla cura dei legami interpersonali, sociali; la cura come motore di spinta dello spirito rivoluzionario, quale forma più elevata di cura se non quella della lotta per salvare il nostro mondo dalla distruzione del capitale?
Non è forse qualcosa che possiamo sfruttare per rimettere sul piatto la centralità delle relazioni, di un legame sociale forte?
Cura, cura di chi è più a rischio. Ma chi sono poi? Certamente chi è più a rischio di esiti gravi della malattia. Forse però esistono anche altre persone che meritano i riflettori. Non le donne che subiscono violenza costrette nelle loro case con gli aguzzini? Non chi soffre di disturbi psichiatrici gravi? Non chi è depress*, ansios* e si ritrova rinchius* sotto il martellante bollettino di morti e contagiati? Non chi una casa non ce l’ha?
E poi c’è l’altra faccia della cura, quella più odiosa. La cura come lavoro, non pagato o non adeguatamente retribuito. Nel decreto Cura Italia a ciò viene riconosciuta una piccola parte. Un voucher baby-sitter di 600 euro e la possibilità del congedo parentale per 15 giorni al 50% dello stipendio. Geniale. Briciole. Fasce intere di popolazione non tenute in conto. 
Stare a casa non ha la stessa portata per tutt* e non avrà le stesse conseguenze. L’hanno già detto in tante, i centri antiviolenza sponsorizzano senza sosta i loro numeri verdi nonostante molti presidi siano costretti alla chiusura: per chi è abusat* la casa è lo spazio dell’aguzzino, e se l’aguzzino è costretto in casa la spirale di violenza diventa più insostenibile e pericolosa. E non saranno i 600 euro per il baby-sitting che permetteranno la fuoriuscita dalla violenza.
Si fa un gran parlare di eroismo per medic* e infermier* ma anche su questo piano la narrazione è superficiale. Un settore di cura centrale, dove la relazione è parte integrante dei compiti lavorativi. Vengono e verranno prese misure adeguate per aiutare chi lavora nel settore a reggere le condizioni lavorative attuali? Per rispondere alle conseguenze psicologiche? Le donne in questo settore sono tre volte tanto gli uomini, e considerando il trend culturale del nostro paese, i loro compiti non si limitano alle ore passate tra le corsie o nelle assistenze domiciliari ma anche nel lavoro di cura a casa.
La cura nell’ambito familiare sta richiedendo uno sforzo immane da parte soprattutto di molte donne. Se lavori da casa devi contemporaneamente svolgere le mansioni salariate e badare a bimbi, anziani, disabili e compagni. Se non puoi lavorare da casa impazzisci per trovare qualcun* che possa prendersi cura dei famigliari che usualmente stanno a scuola, o in un centro diurno, perché va bene i 600 euro una tantum ma intanto devi anticiparli. Oppure non lavori, le tue mansioni domestiche raddoppiano e ancora nessuna istituzione vuole sganciarti il meritato reddito.
La cura ancora. La cura di chi ha malattie psichiatriche o disabilità fisiche e/o mentali. Persone per cui la relazione è fondamentale, un carico che viene lasciato alle famiglie o a lavoratrici domiciliari sottopagate, esposte ai rischi e nuovamente non considerate dal discorso dominante. Queste lavoratrici (la maggioranza è donna) in questo momento sono più necessarie che mai, eppure nel grande invito all’unità nazionale non c’è alcun riferimento alle loro condizioni lavorative o di vita. Indigene o migranti sono esposte al virus, non hanno i presidi medici adeguati, sono costrette a turni massacranti oppure lasciate a casa senza la garanzia di uno stipendio.
E poi ci sono educatrici/ori, di solito dipendenti o soci di cooperative che anche nel migliore dei casi sottopagano il servizio fondamentale di quest* professionist*. Perse le commesse con le scuole, molt* sono stat* invitat* a svolgere i propri compiti a domicilio. Ma non ci sono le condizioni di sicurezza minime, il rischio di contagio per sé e rispettive famiglie è alto. Oppure c’è chi è in ferie forzate e se le ferie non le hai beh, stai a casa senza stipendio.
Che fare di fronte a questo scenario?
La situazione è articolata. Il virus disvela. Disvela più di ciò che ha messo in luce la crisi del 2008. Rendiamo il nostro re (il neoliberismo e i suoi sostenitori) ancora più nudo e vulnerabile. Stiamo attent* e non capitoliamo agli ammiccamenti dei big data che sembrano ormai poterci dare tutte le soluzioni ad una vita solitaria e in perenne quarantena. Resistiamo a queste settimane difficili, diamo centralità al concetto rivoluzionario di cura e rimoduliamo i nostri interventi politici a partire da questo (cosa che spesso inconsapevolmente già facciamo). Riconosciamo i colpevoli e pretendiamo quello che è nostro diritto. Un rafforzamento delle reti di protezione sociale: sanità e servizi uguali su tutto il territorio e un reddito di quarantena che diventi reddito universale e permanente. E poi l’attivazione di reti di mutualismo e solidarietà dal basso. A questo dobbiamo tendere, prepariamoci sperimentiamoci ora per essere pront* al post emergenza. Che richiederà tutto il nostro sapere collettivo, tutte le nostre forze e i nostri desideri.