Per un futuro libero dalla precarietà e dai fascismi

Comunicato dei Centri Sociali del Nord-Est verso il 14 novembre contro la precarietà e il Jobs Act e il 15 novembre contro le nuove destre xenofobe e fasciste.

13 / 11 / 2014

I mesi che separavano dallo sciopero sociale sono ormai giunti al termine. In tutto questo periodo, i diversi movimenti, realtà e centri sociali che hanno deciso di far propria questa data – così come la sua costruzione e le suggestioni future che apre – hanno cercato di sostanziare un’espressione che da troppo tempo ha subito una torsione semantica e una difficoltà di applicazione.

La domanda, banale quanto essenziale, da cui siamo partiti è: cosa significa fare sciopero nella contemporaneità?

Senza avere la velleità di avere una risposta univoca ed esaustiva, pensiamo tuttavia di poter individuare alcune linee guida che ci aiutino a rendere attuale ed efficace un’espressione come quella dello sciopero.

Ovviamente, non pensiamo al darsi dello sciopero sociale come momento esplosivo che esaurisce nella sua contingenza tutte le contraddizioni per quanto riguarda precarietà, diritti e lavoro; crediamo fermamente che il 14 novembre possa essere, però, la condensazione pratica dei percorsi territoriali che facciamo vivere quotidianamente, da cui far partire delle linee guida che investano per il cambiamento politico futuro, sempre all’altezza della fase.

Il tempo storico dell’ “ Europa della crisi” induce ad organizzarsi e a contrapporsi al trend ordoliberale che sottende alle riforme sul mercato del lavoro: la compressione dei salari, la restrizione dei diritti e la formalizzazione della precarietà sono trend topic della governance europea che accomunano la condizione di vita materiale di milioni di precari e precarie in tutto il continente.

La coazione al lavoro gratuito e sottopagato è un’odiosa verità che stanno costruendo attraverso la Garanzia Giovani e l’aumento degli stage e tirocini nelle istituzioni della formazione (scuole e università), nascosti dalla patina della “promessa” di una futura retribuzione o di un posto stabile; le due parti del Jobs Act piegano ancor di più il lavoro al ricatto e all’arroganza delle aziende, condannando tutte le categorie dei lavoratori ad un vero e proprio inferno diviso nei gironi dei contratti a termine senza limiti e di quelli a “ tutele crescenti”.

Senza contare che gli ammortizzatori sociali non hanno alcuna prospettiva di garantire i periodi di disoccupazioni o di intermittenza, ancor meno la decisione di scegliere quali tipo di professione e mansione assumere. Questa fotografia è ben nota a chiunque stia cercando di immettersi nel mercato del lavoro, così come lo sono le sue sfumature fatte di sofferenza sociale e impossibilità di ideare un progetto futuro della propria vita.

Praticare lo sciopero sociale, cioè astenersi dall’attività lavorativa (retribuita e non) e bloccare la produzione del valore contemporanea, è un’esigenza necessaria per dare un inizio all’inversione del rapporto di forza. Riuscire a comprendere le forme della precarietà più refrattarie a questo, perché isolate o inserite in un contesto di difficoltà soggettiva, è una sfida su cui bisogna continuare a scommettere.E’ bene ricordare che l’agitazione attorno al lavoro non può limitarsi soltanto al rapporto contrattuale. L’attacco alla sfera della riproduzione della vita intera è parallelo e complementare alla formalizzazione della precarietà, sulla scia degli ultimi anni delle misure di austerity strutturali alla gestione della crisi.

Lo vediamo soprattutto sul piano locale, in cui le amministrazioni e i servizi cittadini sono avvinghiati dalla morsa dei definanziamenti – tra Spending Review e Legge di Stabilità) trasversali alla casa, alle utenze, alle scuole, all’assistenza sociale e allo stesso spazio urbano concepito come vivibile e luogo inclusivo di relazione.

L’accesso compromesso a questi diritti e beni comuni genera un ambiente a inclusione differenziale nella città, nella quale il tirocinante “volontario”, lo studente, il dipendente sfruttato e il migrante non possono ambire a vivere dignitosamente, nel momento in cui vengono tolte loro le possibilità di godere di quel reddito frutto della cooperazione sociale.

Scioperare il 14 novembre vuole anche dire questo: immaginare una città libera dalla rendita parassitaria della speculazione e dell’accumulazione finanziaria per iniziare a praticare un divenire comune della ricchezza. Il tema del diritto alla città, senza esclusioni e discriminazioni, è un’alternativa al degrado delle esistenze che ci rende precari.

Parlare di lavoro, città e delle condizioni di vita dei suoi abitanti è un terreno che in questo momento sta subendo un’appropriazione da parte delle nuove destre.

Se infatti è scontato che il nuovo impoverimento sia dovuto allo smantellamento dei residui di welfare e alle riforme del lavoro, la risposta politica orientata all’estensione dei diritti e ad un’equa redistribuzione del reddito diretto e indiretto si trova di fronte al rischio di prendere un’altra direzione.

L’operazione di unificare le destre, di matrice fascista e razzista, che abbiamo visto a Milano da parte di Salvini e Casapound, sta dando i suoi primi effetti con la comparsa, in alcuni territori, di una loro presenza organizzata e strutturata.

La strumentalizzazione della sofferenza sociale, della guerra tra poveri e del “degrado” delle città, causato in linea di massima dai migranti “invasori”, fa convergere la critica alle misure imposte dall’Europa all’identificazione del nemico interno, come vuole l’ormai “scuola lepeniana”.

Come attivisti degli spazi sociali, abituati a vivere ogni giorno le contraddizioni ed i problemi reali che investono i nostri quartieri e le nostre città, siamo consapevoli che il tema del degrado vada affrontato in tutta la sua complessità, senza permettere che sia terreno ricompositivo e cavallo di battaglia di una destra culturale, politica e sociale.

Del resto sappiamo che una conseguenza diretta della gestione della crisi messa in atto dalla governance neoliberale è stata quella di costruire nuovi dispositivi di individualizzazione ed isolamento, che prestano il fianco al ritorno dei populismi reazionari.

Con onestà intellettuale dobbiamo affermare che il ragionamento che ruota attorno al concetto del degrado costituisce qualcosa di mai sintetizzabile e semplificabile e per questo abbiamo la necessità di bonificare il discorso dalle narrazioni tossiche e di ribaltarlo, riaffermando con forza pratiche di conquista di nuovi diritti e nuovo welfare.

Sappiamo di trovarci di fronte ad un lavoro difficile e faticoso che possiamo affrontare solo valorizzando fino in fondo la pragmaticità del nostro lessico politico, che ha sempre preferito il terreno della pratica e delle lotte a quello dell’evocazione. Per questa ragione è necessario spostare immediatamente la discussione politica e pubblica sul tema sella salvaguardia e dell’ampliamento dei diritti per tutti e tutte.

Per questo è urgente rilanciare con forza la questione del reddito di cittadinanza e delle tutele per lavoratori, dipendenti ed indipendenti, e di disoccupati ed inoccupati.

Il 14 novembre è certamente una giornata che mira a sovvertire questo tipo di retorica, così come le pratiche e i discorsi che nei nostri territori hanno portato alla sua costruzione intersecando le occupazioni delle case, le vertenze dei lavoratori della logistica, le rivendicazioni degli studenti e dei precari, la socialità sana che si è ripresa spazi in cui si è tentato di normare i comportamenti con le ordinanze xenofobe. E proprio con questo portato, la giornata dello sciopero sociale si proietta nel rifiuto di avere Roberto Fiore e

Forza Nuova a Vicenza il giorno successivo, in occasione di una conferenza sull’ebola e la presenza americana nella base del Dal Molin. La contrapposizione al Jobs Act e all’austerità di Renzi è complementare al respingimento dei nuovi fascismi; è un prendere posizione dalla parte della libertà e dei diritti per tutti e tutte, negando l’agibilità politica e mediatica di chi concepisce l’uscita dalla crisi con un progetto razzista, sessista e autoritario.

Ed è con questo spirito e con questo portato di ragionamento che ci interroghiamo fin da subito sulla possibilità e le modalità di attraversare, come movimenti sociali e soggettività politiche organizzate, la sciopero generale lanciato dalla Cgil il prossimo 5 dicembre. La scelta dello sciopero, per quanto tardiva, rompe lo schema del muto consenso attorno al governo Renzi e può valorizzare quella inattesa conflittualità che sta attraversando il mondo del lavoro in queste ultime settimane e che ha nella vertenza delle acciaierie di Terni il suo dato più vivo e sorprendente.

 Per un futuro libero dalla precarietà e dai fascismi: #14N e #15N

Centri Sociali del Nord-Est