Per i diritti di sex workers e clienti: verso la decriminalizzazione giuridica e sociale del lavoro sessuale

24 / 8 / 2015

L'11 agosto, a Dublino, è stata approvata da Amnesty International una risoluzione per la protezione dei diritti umani delle/dei sex workers. Un traguardo raggiunto soprattutto grazie al lavoro di numerose associazioni che da anni si battono per il riconoscimento dei diritti delle lavoratrici del sesso e per la depenalizzazione della prostituzione, ma a ciò non si è certo arrivati senza numerose polemiche.  

L’associazione CoalitionAgainstTrafficking in Women, infatti, con l’appoggio di numerose star di Hollywood, in una lettera aperta scrive: «Ogni giorno combattiamo l’appropriazione maschile del corpo delle donne, dalle mutilazioni genitali ai matrimoni forzati, dalla violenza domestica alla violazione dei loro diritti riproduttivi. Pagare denaro per una simile appropriazione non elimina la violenza che le donne subiscono nel commercio del sesso. È incomprensibile che un’organizzazione per i diritti umani della levatura di Amnesty International non riesca a riconoscere che la prostituzione è una causa e una conseguenza della diseguaglianza di genere».

Tra le firmatarie vi è la regista Lena Dunham, che, avendo invitato l’artista Molly Crabapple a partecipare ad un progetto legato alla campagna contro la mozione di Amnesty, si è vista rispondere con la lettera pubblicata di seguito:

 

Cara Lenny,

grazie per avermi cercato e per le parole gentili sul mio lavoro.

Non posso però impegnarmi in un progetto diretto da Lena Dunham, fintanto che lei appoggia la petizione contro la depenalizzazione della prostituzione proposta da Amnesty International.

Molte delle mie più care amiche sono lavoratrici del sesso. La mia militanza politica è legata all’attivismo sui temi della prostituzione, e da giovane ho lavorato in un settore legale dell’industria del sesso. La campagna di Amnesty International per la depenalizzazione della prostituzione è un’azione importante e positiva.

Che si tratti del Bronx o della Cambogia, la polizia impiega la violenza contro le lavoratrici del sesso e contro le vittime del racket della prostituzione. Stupra, deruba, picchia, ricatta, arresta le lavoratrici del sesso e le vittime del racket della prostituzione.

La depenalizzazione è un passo importante per porre fine a tutto questo. Senza dubbio Lena Dunham crede che la petizione che ha firmato chieda la criminalizzazione solo dei clienti e degli sfruttatori, non delle lavoratrici.

Questo modello, chiamato svedese, è però tutt’altro che una buona cosa. Ostacola ogni tentativo da parte delle lavoratrici del sesso di controllare le loro condizioni di lavoro. Favorisce la loro discriminazione, l’impoverimento, lo sfratto dalle loro case, e le rende passibili dell’accusa di «sfruttamento» quando scelgono di lavorare insieme per sentirsi più protette. Soprattutto, comporta spesso l’intervento di poliziotti corrotti e violenti nella vita di donne che sono già state vittime di violenza.  L’articolo di Molly Smith per «New Republic» spiega assai bene i problemi del modello svedese. La signora Smith è una lavoratrice del sesso, un’attivista e una scrittrice.

Molte attrici famose hanno firmato la petizione anti-Amnesty. Ma Lena Dunham è più che un’attrice. È una giovane femminista fiera e conosciuta. Si può dire che sia uno dei volti più noti del femminismo. Eppure sta prendendo una posizione politica che danneggia e mette in pericolo altre donne nel mondo. La esorto quindi a riconsiderare il suo sostegno alla petizione anti-Amnesty, e ad ascoltare le voci delle lavoratrici del sesso. Purtroppo, fin quando sosterrà quella petizione, non potrò collaborare con lei.

Cordiali saluti,

Molly

Da attivist* femminist* che da anni cercano di condividere all'interno degli spazi sociali i temi legati al diritto all'autodeterminazione anche delle/dei sex workers, ci sentiamo di condividere appieno la lettera di Molly Crabapple e accogliamo fiducios* la risoluzione di Amnesty, perché crediamo che la de-criminalizzazione della prostituzione, anche in quei Paesi, come l'Italia, dove non si può parlare di penalizzazione in senso stretto, sia l’unica strada percorribile per garantire la libertà di scelta, la salute e la sicurezza di chi svolge lavoro sessuale.

Sul sex work, soprattutto in Italia, pesa ancora fortemente uno stigma sociale e morale, che tende ad equiparare la tratta e lo sfruttamento al lavoro sessuale e che vede nella criminalizzazione – se non giuridica, quantomeno sociale - un mezzo per ribadire l'inviolabilità dei corpi delle donne, anche quando sono esse stesse a rivendicare la propria scelta libera e consapevole. Sovradeterminazione, dunque, e della peggior specie, che, come ci raccontano molto spesso prostitute e lavoratrici del sesso, mette a repentaglio la loro sicurezza ed il loro diritto alla privacy.

E sia chiaro che lo stigma a cui ci riferiamo non riguarda solo i prestatori e le prestatrici di lavoro sessuale, ma anche i/le loro clienti, perché non v'è dubbio che se dobbiamo inquadrare il sex work entro gli schemi (sociali) del lavoro professionale non possiamo negarne l'essenziale bilateralità. C'è chi gode dell'opera pagando e chi la presta venendo pagat*, tutto qui. A cosa servirebbe riconoscere i diritti delle prostitute senza riconoscere i diritti della clientela?

Assistiamo, infatti, ancora oggi all'incapacità diffusa di concepire la sessualità in modo aperto e laico. Nelle sabbie mobili dei retaggi cattolici e della cultura disneyana fatichiamo ad accettare la sessualità al di fuori delle retoriche romantiche che albergano ancora in pratiche e atteggiamenti tesi alla condanna dei clienti, sovente accusati di essere, in quanto tali, violenti e sfruttatori.

Ma come ci hanno ripetutamente spiegato le prostitute stesse, la stigmatizzazione sociale e la criminalizzazione giuridica dei clienti non fanno che limitare ed elidere la possibilità di scegliere liberamente e di lavorare in privacy e sicurezza. E ciò è di una tale evidenza (perché lo stesso avviene per qualsiasi altro lavoro) che dispiace davvero doverlo ribadire a chi, in teoria, si batte per il diritto all'autodeterminazione personale e lavorativa delle donne. Perché ci si permette di cacciare i clienti, denigrarli, offenderli, minacciarli e additarli come mostri? Se sto lavorando per procurarmi un reddito, quale donna-da-bene può arrogarsi il diritto di decidere con chi, dove e come devo lavorare, osteggiando la mia clientela? E se sono una donna sfruttata e ricattata, perché devo rischiare di essere, magari, picchiata e punita perché non ho ricevuto abbastanza clienti, o sbattuta nelle periferie industriali dove non bazzicano i fai-da-te della tutela della “dignità femminile”?

Il modello svedese è un chiaro esempio di come la criminalizzazione dei clienti ricada inevitabilmente sui diritti dei/delle sex workers.

Entrato in vigore nel 1999, questo modello, a cui le/i pro- criminalizzazione fanno quasi sempre riferimento, prevede pene per i soli clienti (si va dalle multe al carcere fino a sei mesi) e vanta la diminuzione del 40% della prostituzione di strada dall’entrata in vigore sino al 2003. Negli anni successivi all’approvazione della legge la maggior parte delle prostitute, per poter lavorare, si è spostata al chiuso, spesso in situazioni di maggiore rischio per la loro incolumità fisica. La criminalizzazione dei clienti, inoltre, ha favorito un clima di omertà riguardo alle vittime di tratta.

Lo stesso accade nei nostri territori, quando ordinanze anti-prostituzione, ronde di cittadini o paladini della santità del corpo delle donne inducono le prostitute a spostarsi in zone meno disturbate, ma più pericolose.

A ciò si aggiunga che le velleità borghesi e privilegiate di chi spesso pretende di agire per (ma non con) le prostitute ignorano, volutamente o meno:

-che il lavoro sessuale è spesso un servizio nei confronti di disabili, anziani ed altri soggetti che per diverse ragioni hanno una minore capacità di accesso all'attività sessuale;

-che le/i sex workers sono soggetti pienamente capaci, organizzati, consapevoli, in grado di gestire la propria professione né più né meno di altr* lavoratori e lavoratrici;

-che la clientela del lavoro sessuale sono i nostri genitori, datori di lavoro, insegnanti, amici, chiunque in diverso modo attraversi le vite di tutt* e che ritenere che una prostituta sia più vulnerabile rispetto a questi stessi soggetti sia un atto di disvalore e di infantilizzazione paternalista;

- che molt* di noi svendono la propria preparazione e il proprio cervello a cifre che si aggirano dai 3 ai 6 euro all'ora, ma “la figa no, è sacra e dobbiamo conservarla, ce l'ha detto madre Chiesa”.

Detto questo, non crediamo in un processo di legalizzazione che rinchiuda il sex work nei confini asfittici che stritolano altre categorie di lavoratori e lavoratrici autonom*.

La Nuova Zelanda, ad oggi, è forse l’esempio migliore di come si dovrebbe affrontare il tema della prostituzione: i neozelandesi hanno scelto di percorrere la strada della depenalizzazione del lavoro sessuale valorizzando i diritti e bisogni delle/i sex workers, permettendo loro di esercitare il proprio lavoro in modo informale e senza bisogno di pratiche amministrative.

Ma per tornare a noi, ai nostri territori e ai nostri spazi, pensiamo che ancora molto debba cambiare e non solo in termini giuridici e amministrativi. Fino a quando vi sarà chi insiste nel dipingere la figura della/del sex worker in modo stigmatizzato, come un soggetto da salvare - da un pappone, da un cliente o da se stess* -, come una persona che non è in grado di decidere per sé, perché “nessuna donna venderebbe il proprio corpo”, o fino a quando, in egual misura, si continuerà a vedere i clienti (inevitabilmente maschi?) sempre e comunque come sfruttatori, violenti e traditori, vorrà dire che abbiamo ancora un lungo lavoro politico e culturale da portare avanti.

Vulva la revolución!

Assemblea permanente We Want Sex