Padova - Per un mondo libero dall'oppressione partiarcale: perchè scendiamo in piazza l'8 marzo

Un documento del Collettivo Squeert verso lo sciopero dell'8 Marzo

2 / 3 / 2023

Dalle nostre assemblee e dalla discussione cittadina a cui abbiamo preso parte sono emerse chiaramente le motivazioni che ci portano con rabbia a scendere in piazza durante la giornata di sciopero dell'8 Marzo. 

Le questioni che viviamo quotidianamente sono quelle da cui abbiamo deciso di partire, con la consapevolezza che l’obiettivo è comprendere e rispondere ai bisogni della città che abitiamo.

Per noi la giornata dell’8 marzo smette di essere una ritualità e riesce ad essere una giornata di lotta se è ben radicata nel territorio, se riusciamo ad individuare dove sono i luoghi di marginalità, gli spazi dove nascono e si riproducono le forme di violenza: luoghi di lavoro, scuole, università, strade, tribunali, ospedali, consultori. Al contempo sentiamo la necessità di valorizzare quei piccoli o grandi spazi che provano a cambiare la vita delle soggettività marginalizzate, quei luoghi dove si pratica la sorellanza, le reti di cura e si dà vita a forme di lotta conflittuale: gli spazi sociali, le assemblee, i luoghi dove si organizzano le iniziative di lotta, le pratiche di mutualismo e tutte le forme di socialità che ci salvano dalle nostre quotidianità oppressive.

Siamo partite osservando lo stato di salute, o meglio di malessere, della sanità pubblica nella nostra città, a partire dall’alto tasso di obiezione di coscienza fino alla disfunzionalità dei consultori. Per 200.000 persone ci sono solo 3 consultori aperti, ciascuno per metà settimana e poche ore al giorno perché il personale è sempre lo stesso che ruota tra questi nell’arco della settimana. Ad aggravare questa situazione c’è la formazione del personale, spesso inadeguata per relazionarsi a corpi di persone non cis o eterosessuali. Solo questo quadro superficiale ci fa capire quanto gli investimenti che la regione fa in materia sanitaria non raggiungono nemmeno il minimo necessario.

Ci chiediamo se stare bene con il proprio corpo debba essere un privilegio. Sapere che i nostri corpi, anche in malattia, ci appartengono e avere la garanzia che qualcuno metta il proprio sapere a disposizione per aiutarci a prendercene cura è qualcosa di fondamentale per vivere una vita degna: essere ascoltate e vedere la nostra esperienza riconosciuta quando diciamo che il dolore esiste. Oppure semplicemente ci sono volte in cui sentiamo la necessità di chiarire i nostri dubbi, di parlare di sesso - sia esso penetrativo o meno - di scoprire come proteggerci e come sentirci bene. 

Tutto questo oggi nel nostro paese non è un servizio garantito, ma si può ottenere solo pagando cifre elevate. I tempi di attesa della sanità pubblica e la poca preparazione su un certo tipo di tematiche rendono troppo spesso inaccessibili i pochi servizi esistenti. Rivolgersi alla sanità privata diventa allora una scelta obbligata, e mai una scelta come questa è fatta a cuor leggero perché i lavori precari, intermittenti, scarsamente retribuiti e privi di tutele sono un altro fattore che ci accomuna. Dover spendere 150 euro per una singola visita disincentiva la prevenzione, ci porta a ignorare il problema, a sopportare e arrivare allo stremo prima di intervenire: tutto ciò appesantisce la gestione della salute pubblica e influisce negativamente sulla qualità della vita. 

Dando uno sguardo più ampio alla sanità italiana, possiamo dire che purtroppo è un tema che è sparito dai radar dei media mainstream. La pandemia sembra essere un lontano ricordo, quando invece i morti sono ancora molti, e soprattutto gli ospedali e i presidi sanitari pubblici stanno venendo man mano smantellati in favore di una sanità sempre più privatizzata. Quella che doveva essere una priorità politica per governo e regioni, la garanzia di un sistema sanitario universalmente accessibile, è diventato un nuovo terreno di profitto. Inoltre, costruire un sistema sanitario che si basi sul concetto della salute come bene comune, significa occuparsi di ambiente, clima, reddito e welfare.

Non solo. L’inflazione, il carovita, li stiamo pagando noi: non possiamo permetterci più nulla, non possiamo sognare un posto dove vivere, non possiamo desiderare una vita bella perché, a fronte di un’impennata del costo della vita (generi alimentari, bollette, affitto), i nostri redditi sono rimasti uguali, se non più bassi. Nelle nostre case le entrate economiche sono troppo spesso in carico agli uomini, e quando non è così molto spesso non bastano a coprire le spese di affitto, bollette e utenze varie. Per questo sentiamo necessario lottare per un reddito di autodeterminazione, disgiunto dalla prestazione lavorativa e da qualsiasi altro fattore: la ricchezza c’è e va redistribuita subito!

Una riflessione a parte merita il mercato immobiliare. L’aumento spropositato dei prezzi degli affitti, legato a una dinamica speculativa innescatasi nella fase post-Covid, come risvolto ha anche quello di lasciarci senza una via d’uscita da contesti violenti, all'interno della famiglia o della coppia. I servizi di accoglienza e le case rifugio non bastano e non sono la vita che desideriamo, le comunità spesso sono posti in cui la vita viene stravolta e non sempre sono un luogo adatto a costruire indipendenza. Eppure nella nostra città le case vuote sono centinaia. Gli enti pubblici come ATER che gestiscono le case popolari le tengono chiuse perché è più facile e redditizio venderle sul mercato privato che investire nelle ristrutturazioni necessarie.

Chiudere una casa con una porta blindata è commettere una violenza, proprio perché nega la possibilità di svincolarsi da quella tipologia di famiglia che spesso ci sta stretta: la famiglia patriarcale, spesso violenta in modo plateale e fisico, altrettanto spesso più subdola e violenta in modo psicologico. 

Stiamo forse dicendo che non esistono famiglie felici? No, certo che no. Ma noi non ci occupiamo di esse, cerchiamo invece di portare in piazza con lo sciopero dell’8 Marzo la necessità di avere strumenti per riconoscere la violenza e fuoriuscirne, dalle aspettative che i nostri genitori e l3 nostr3 partner hanno su di noi, dal non poter essere noi stess3 dentro e fuori casa. 

Uno di questi strumenti potrebbe essere la possibilità di creare s-famiglie, relazioni che esulano dalla norma della coppia monogama ed eterosessule, ma che possono dare sostegno ed aiuto, e non solo nelle situazioni di violenza. Queste relazioni però non sono mai riconosciute dalle istituzioni, il loro valore è minimizzato nella nostra società che riconosce solo la famiglia come struttura sociale. Noi invece crediamo nella miriade di possibilità e di esperienze alternative, e ci piace immaginare che un giorno gli scenari famigliari diversi e variopinti saranno la normalità, e potranno essere riconosciuti i diritti delle persone coinvolte così come quelli di una coppia eterosessuale. 

Oltre che dallo sfruttamento dei nostri corpi scioperiamo anche dallo sfruttamento dei territori, scendendo in piazza anche il 3 marzo per lo Sciopero Globale per il Clima. Partiamo dalla nostra città e dalla regione, la seconda in Italia per cementificazione e su tutti i titoli di giornali per l’inquinamento dell’aria. Le conseguenze di tutto questo le vediamo sulla nostra salute, sul livello di Pfas nel sangue dovuto all’inquinamento delle falde acquifere e nei problemi polmonari che sono enormemente diffusi in Veneto. Scendiamo in piazza perché la terra, le acque, le foreste, non siano più considerate solamente come merci o fonti di profitto per pochi, perché non siano più inospitali e nocivi. Non può esistere giustizia sociale senza giustizia climatica; la crisi climatica non colpisce tutt3 allo stesso modo. Le soggettività queer e i corpi femminili sono infatti da sempre marginalizzati ed esclusi dagli equilibri di potere del sistema capitalista, sfruttati nel lavoro riproduttivo e di cura gratuito che consente però lo sviluppo della forza lavoro e quindi dello stesso sistema capitalista, coloniale e razzista. 

Per andare nella direzione di un mondo che sia più giusto dobbiamo inoltre metterci a disposizione delle persone migranti, usare l’empatia per provare a metterci nei loro panni e cercare di comprenderne le necessità, quindi ribellarci alla violenza istituzionale sui confini o che esaspera le pratiche per i documenti, rendendo la burocrazia uno strumento di tortura e ricatto. Dobbiamo opporci al razzismo e alle molestie nei posti di lavoro, negli ospedali o in qualsiasi altro luogo. Per farlo dobbiamo disimparare tutto quello che ci hanno insegnato da bambin3: “silenzio e sopportazione”. Abbiamo invece bisogno di voce e ribellione. 

Vogliamo smettere di dover essere sempre la nostra versione migliore, vogliamo sentirci fragili e appoggiarci alle nostre sorelle, per fare questo dobbiamo creare occasioni di incontro e legami di sorellanza. Ma la più grande violenza è la creazione di confini e frontiere che solo coloro che stanno dalla parte fortunata possono attraversare. Non possiamo in questi giorni non inorridire davanti a ciò che è successo in provincia di Crotone e davanti alle parole disgustose del ministro Piantedosi. Siamo in piazza l’8 marzo anche per lottare al fianco di tutte le sorelle e i fratelli migranti, chiedendo vie di sicure per arrivare in Europa, libertà di movimento e dicendo basta alla criminalizzazione del soccorso in mare. 

Vogliamo dire basta alla violenza burocratica, che opprime i nostri fratelli e le nostre sorelle migranti e tutte le soggettività queer. Le persone migranti quando arrivano in Italia entrano in un inferno burocratico fatto di cavilli e continue complicazioni, che rende loro sempre più difficile la possibilità di trovare un lavoro non in nero, di accedere ai servizi, insomma di avere una vita degna. Questo li espone a un rischio maggiore di sfruttamento, soprattutto per quanto riguarda le donne. La violenza burocratica si esprime soprattutto nella difficoltà di accedere alla sanità. Per le donne questo significa l’immpossibilità di usufruire di quei servizi ginecologici che in generale non sono garantiti, come l’aborto, visite per le malattie invisibili, contraccezione. 

Inoltre, anche le soggettività trans e non binary sono quotidianamente esposte a questa violenza. La difficoltà nel farsi riconoscere il percorso di transizione, la lunghezza dello stesso e la sua psichiatrizzazione, rendono difficile il cambio dei documenti. Questo si riflette in una continua necessità di coming out forzato a livello istituzionale, con le conseguenze psicologiche correlate. 

Ma vogliamo anche sentirci forti e sicur3.

Vogliamo vestirci “da uomo”, vogliamo truccarci e sputare per terra, vogliamo bestemmiare e sfilare sui tacchi a spillo, vogliamo vestirci “da donna”. Vogliamo scioperare dai generi, dalle loro espressioni stereotipate e limitanti, non vogliamo pensarci liber3, vogliamo esserlo. Non vogliamo più perfomare delle caratteristiche che non sentiamo far parte della nostra identità. L’8 marzo - come tutti i giorni - vogliamo scardinare il binarismo di genere e per noi vuol dire anche lottare contro la femminilizzazione del lavoro, contro l’idea che ci siano lavori da donna (precari e sottopagati) e dei lavori da uomo. Ma non solo: significa scioperare da ciò che la società si aspetta da noi. Non vogliamo essere carine e sorridenti, doverci truccare ma non troppo, doverci vestire in un certo modo, avere una certa postura, occupare poco spazio nei mezzi pubblici. 

Per tutti questi motivi, vogliamo scendere in piazza l’8 marzo, vogliamo farlo insieme come sorelle e compagne, perché solo mettendo insieme tutte le nostre voci e la complessità delle nostre vite e delle nostre esperienze possiamo lottare verso un mondo migliore, libero dall’oppressione patriarcale.