Padova - La Gelmini non ci merita

Note sulla riforma di un ministro in affanno

2 / 11 / 2009

Ed eccoci all’atto finale della grande opera di smantellamento dell’Università pubblica italiana! Il governo ci riprova e tira fuori la riforma preparata già lo scorso anno, ma messa nel cassetto ai tempi delle straordinarie mobilitazioni dell’Onda. Spacciata  per frutto di una lunga consultazione, che è invece totalmente mancata (specie con chi l’università la vive realmente!), è una riorganizzazione che va interamente letta alla luce dei drastici tagli della legge 133 e dell’ultimo comma dell’articolo 15 della neo-riforma: “Dall’attuazione delle disposizioni della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.

Frase che rivela ancora una volta l'assurdità di una risttrutturazione che pretende d'essere fatta "a costo zero”.

Ecco i punti principali della riforma:

Ristrutturazione della governance universitaria La prima parte del disegno di legge si occupa del riassetto dei principali organi di potere degli atenei, andando a colpire duramente il Senato Accademico, che potrà solo formulare proposte o pareri in materia di didattica e ricerca, dequalificandolo e svuotandolo completamente di ogni potere decisionale (a proposito di razionalizzazione delle risorse ed eliminazione degli sprechi!). Al suo posto l’istituzione di un Consiglio di Amministrazione composto per almeno il 40% da membri esterni non elettivi che, colmando il vuoto di potere lasciato da un ormai inutile Senato, regala di fatto la gestione dell’Università pubblica ad aziende, banche e partiti, che sono tenuti solo a gestire e non ad investire. Verrebbe da chiedersi come in tempo di crisi questi enti esterni possano impiegare capitali nell’Università, a partire dal fatto che in Italia il privato ha sempre visto nel pubblico una facile occasione di profitti immediati anziché di investimenti a lungo periodo (come ad esempio è successo per Alitalia, Enel, Trenitalia, …).

Inoltre la figura del direttore amministrativo viene sostituita da un direttore generale che, proprio come se l’Università fosse un’azienda, avrà il compito di gestire ed organizzare i servizi, le risorse e il personale. Insomma, un vero e proprio manager d’ateneo, a sottolineare ancora una volta la direzione in cui questa riforma si muove.

Meritocrazia e diritto allo studio 
Cavallo di battaglia di questa riforma è la tanto decantata “meritocrazia”.
Interessante notare come lo status di meritevole venga attribuito unicamente sulla base di criteri economici e quantitativi, come ad esempio i bilanci in attivo per gli atenei e i crediti in attivo per gli studenti, e in virtù di quanto ci si adegua alla riforma in atto, palesando così la funzione di disciplinamento della retorica meritocratica. Di qualità e particolarità, locali o personali che siano, non se ne parla.

Ecco dunque che si aprono le porte di un’arena in cui gli atenei italiani si scontreranno a colpi di scure per guadagnarsi il titolo di “eccellente” agli occhi dell’ANVUR (l’agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario che avrà il compito di valutare della qualità degli Atenei e degli Enti di ricerca e di assegnare il Fondo di Finanziamento Ordinario) e rubare così quei pochi soldi rimasti alle università “non meritevoli”; e chi non ce la farà a mantenere in pari il bilancio verrà commissariato.

Il tutto si svolge infatti a partire dai pesanti tagli della 133 dello scorso anno e nel testo del di disegno di legge si parla espressamente di “riequilibrio” dei fondi tra gli atenei.

Per quanto riguarda la competizione studentesca viene istituito un “Fondo per il merito”, gestito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, cui si potrà accedere per via di test standardizzati a livello nazionale, ovviamente a pagamento, formulati sulla base di parametri dettati dal Ministero dell’Istruzione, ma elaborati dalla Consap S.p.a., società che già gestisce i fondi pubblici di “garanzia e solidarietà” (ad esempio i fondi per le vittime della strada o della caccia) e priva di competenze specifiche in materia di università.  Dal momento in cui quasi ossessivamente si ripete che il tutto deve essere fatto a costo zero per la finanza pubblica, è più che lecito porsi il dubbio sulla provenienza  dei soldi destinati a questo fondo, ipotizzando come possibile pozzo le già poche risorse destinate ad altri settori, come ad esempio alle “ordinarie” borse di studio, agli alloggi o alle mense. Inoltre ci potranno essere donazioni private anche vincolate a specifici corsi di studio, da cui ci si aspetterà quindi un ritorno economico. Si parla quindi di un fondo che, dedicato ai meritevoli anche se non privi di mezzi economici, rischia di lasciare al verde chi altrimenti non potrebbe permettersi di studiare. Ma non c’è da preoccuparsi: per chi poi non riuscirà più a pagarsi gli studi è già pronto il “Prestito d’onore”, modo simpatico se non burlesco per definire l’ultima frontiera dell’indebitamento studentesco. Peccato che negli Stati Uniti, modello idolatrato nel processo di riforma dell’Università italiana, il sistema del debito abbia già fatto in tempo a fallire, spinto anche dall’impossibilità degli studenti di ripagare il debito una volta entrati nel “mercato della precarietà”.

A corollario del tutto si da delega totale al governo per riorganizzare la politica del diritto allo studio, e ancora una volta senza finanziamenti.

Reclutamento del personale accademico


Nella terza parte vengono modificate le tipologie di contratto e reclutamento di ricercatori e docenti. A partire  dall’accorpamento dei settori scientifico disciplinari, disposto dal testo di legge per ridurre gli sprechi: a farne le spese sarà innanzitutto l’offerta formativa con la cancellazione di interi corsi di studio che avverrà non sull’effettiva qualità della didattica, ma sulla base di una produttività intesa in termini puramente aziendalistici. Per quanto i riguarda i ricercatori viene cancellata la figura del ricercatore a tempo indeterminato ed istituito un contratto di 6 anni (3+3). Al termine dei sei anni se il ricercatore sarà ritenuto valido dall’ateneo sarà confermato a tempo indeterminato come associato; in caso contrario terminerà il rapporto con l’Università. Partendo ancora una volta dal blocco del turn-over e dalla totale assenza di risorse decretati dalla 133, i cui effetti sono già verificabili se si vanno a vedere le quasi nulle assunzioni di quest’anno delle nostre Facoltà, è facilmente immaginabile quanti avranno la reale possibilità di entrare nel mondo accademico per fare ricerca. Senza contare la ricattabilità a cui sarà sottoposto ogni singolo ricercatore.

Per quanto riguarda invece il fronte docenti, nonostante l’istituzione dell’abilitazione scientifica nazionale che consegna una parvenza di oggettività, la decisione finale spetta comunque agli ordinari locali, continuando a rafforzare anziché debellare il potere baronale ormai strutturale negli atenei italiani.

La Crui ha già preso posizione e l’ha fatto a favore della riforma, limitandosi solo a chiedere il ripristino dei fondi tagliati dalla 133. Prevedibile dal momento in cui questo nuovo disegno di legge si pone a garanzia degli interessi baronali e, al contrario di quanto annunciato, li rafforza.

Ma noi sappiamo da che parte stare! Consci della drammatica situazione in cui verte l’Università italiana, ribadiamo che non siamo qui per difendere lo stato di cose presenti. Al contrario continueremo all’interno delle Facoltà il nostro progetto di autoriforma, che si è sviluppato a partire delle mobilitazioni dello scorso autunno e che dal basso mira alla costruzione di un università diversa, un’università del comune in cui gli studenti possano decidere sul proprio percorso di studi e sul proprio futuro e in cui cultura e ricerca vengano valorizzate come ricchezza di tutta la società.
 
Questo è l’atto finale, non stiamo a guardare!

Onda Anomala Padova

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