Appunti sulla riforma del lavoro

Oltre la trincea, in campo aperto

di Bruno Pepe Russo ed Eleonora de Majo

29 / 3 / 2012

Avremmo potuto pensare che da queste giornate ne sarebbe uscito, per lo meno, un momento di chiarezza. Lo sapevamo, in fondo, che la trattativa sul mercato del lavoro si sarebbe risolta solo con delle sedie per aria, con il duo Monti-Fornero deciso ad andare fino in fondo, oltre non solo la concertazione, ma la stessa consultazione con le forze che lo sostengono. Sapevamo anche che questa trattativa doveva servire innanzitutto a mostrare l’inversione di rotta definitiva degli iter classici della  democrazia della rappresentanza che ereditiamo dalla prima repubblica, abolendo così l’ingerenza di qualsiasi ostacolo “sociale” si frapponesse tra Governo e Parlamento. Perché sul mercato del lavoro non potevano che emergere le distanze e i posizionamenti che, pur nella crisi della sovranità, non possono che caratterizzare il quadro parlamentare. Vecchia storia nel nostro paese questo articolo 18: croce e delizia dei DS che furono, e della continuità con quel lavoro dipendente che, i dati ci dicono, è ancora il loro bacino di voti principale, dentro il partito democratico.
Oggi è difficile persino per loro sostenere queste prime bozze: per molte ragioni. Innanzitutto, il dispositivo dello “scambio”/riequilibrio dei diritti fra generazioni non regge più, un po’ come la filastrocca dei “sacrifici”: la “paccata” di miliardi per i precari non si vede neanche all'orizzonte, e questa proposta non è, a detta della stessa Fornero, una “riforma degli ammortizzatori sociali”, ma una riforma del mercato del lavoro, in cui si da soprattutto un giudizio politico su una serie di tutele, e le si spazza via. Tant'è vero che, a differenza della bozza Ichino, la cancellazione della possibilità di reintegro per i licenziamenti economici (leggi, abolizione art.18) varrà per tutti i contratti, non solo per quelli stipulati dopo il varo della riforma. E se a poco serve questa Aspi, che regala 6 mesi di mobilità anche ai lavoratori “intermittenti” stravolgendo in cambio la mobilità e la cassa integrazione, l'architrave retorico del famoso “apartheid” dei precari crolla con le altre due tutele “introdotte” per i precari e per le piccole aziende, cioè il limite dei 36 mesi per il contratto a tempo determinato e l'estensione del reintegro per motivi discriminatori anche alle aziende sotto la soglia dei 15 dipendenti. Per fortuna, non c'hanno messo molto numerosi giuristi italiani, fra cui Gallino, a far notare che ciò che si presenta come contrappeso all'indigeribilità della riforma, è in realtà già previsto, rispettivamente nell'articolo 5 comma 4 bis del DL368 del 2001, e nell'art. 3 della legge 109 del 1990.
Non c'è quindi sul tavolo un ridisegno, un nuovo “patto generazionale” da scrivere. La favola del riequilibrio e del rilancio del sistema lavoro perde molta della sua credibilità. C'è invece un orgoglio tacheriano, muscolare, che solo il plenipotenziario Colle è riuscito ad arginare scongiurando l'ipotesi del decreto legge: scelta che, a detta di molti analisti, avrebbe potuto provocare la caduta del governo. Adesso i tempi si allungano, con le parti in surplace e un occhio anche alle elezioni francesi.
Il PD si trova dunque con questo cerino in mano, e vede esplodere le proprie contraddizioni interne, fra la gioia di Fioroni, e l'opposizione del fronte “neo”laburista, e soprattutto della Cgil della mozione Camusso, che nonostante i mala tempora che corrono, resta ancora l'interlocutore di una grossa parte del Pd.
Dicevamo all'inizio che di buono ne poteva uscire giusto una geografia più netta e chiara, un'esplosione delle contraddizioni che facesse emergere dall'alta marea à la Napolitano, gli attori della politica della crisi in maniera più netta.
E invece ci sembra che il rischio di questa fase sia proprio una nuova foschia,  che si alza dalla trincea che la Cgil sta scavando sull'articolo 18.
Una trincea in cui dovrebbero finirci uniti tutti, in primis il sindacato che il 28 giugno firmava un accordo terribile insieme agli altri confederali, e poi tutto ciò che sta alla sua sinistra. All'insegna di una passione triste, quella di una corazzata Potemkin che negli ultimi 20 anni è stata in buona parte promotrice di tutta quella ristrutturazione del mercato del lavoro, da Biagi, a Treu in giù, che, diciamocelo, ha questa legge come evidente approdo finale, non come una padronale montiana discontinuità. Ne è dimostrazione eloquente l’entusiasmo con cui lo stesso Treu ne ha accolto i contenuti.
E il rischio è che in questa passione triste, che guarda indietro alla ricerca di un senso al proprio posto nel campo partitico e politico contemporaneo, ci finiscano impantanati anche  quei soggetti impegnati in una lettura più radicale e sistemica della crisi in atto, delle teorie e delle pratiche che negli ultimi vent'anni hanno ridefinito il campo del lavoro.
Badate bene, la questione è in quale lunga durata e a quale soggettività si legherà l'opposizione a questa riforma del mercato del lavoro. Se alla storia di questi vent'anni, fatta di piccoli compromessi con il lavoro che coprivano l'apertura di strade all'aggressione del capitale globale, oppure a laboratori sociali e critici che vogliano realmente leggere dove porta la crisi.
Vedere oltre questa trincea e la foschia che si alza vuol dire focalizzare la distinzione fra la passione triste per il laburismo novecentesco (che nasconde la svendita, in realtà, di ogni protagonismo sociale e decisionale dei lavoratori), e invece un nuovo divenire sociale che tessa insieme il lavoro dipendente e il lavoro intermittente sul terreno della critica a quel sistema che oggi scrive leggi come queste nella democrazia della crisi. Riconnettere dunque, come nei percorsi che ci hanno visto lottare negli ultimi tre anni, la difesa dei diritti novecenteschi alla costruzione di un nuovo modello di sviluppo, che non prevede la cementificazione delle valli ma l'interrogazione sulla riconversione industriale e l'assetto idrogeologico del paese. La netta polarizzazione tra Cgil e Fiom a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi non lascia dubbio alcuno su quanto sia alta la “posta sociale” che la prima è disposta a svendere  in nome dell’apprezzamento del Colle e della tenuta della relazione con lo sgangherato Partito Democratico. E non abbiamo dimenticato come Camusso il 28 Giugno abbia scelto di saltare a piè pari tutta la concertazione interna al sindacato, sedendosi ad un tavolo di storica importanza, circondata dalla coalizione di poteri forti che già si pregustava lo smantellamento definitivo del “macchinoso” e “costoso” mercato del lavoro all’Italiana. Per non parlare della Tav poi, con la retorica dell'occupazione sciorinata davanti ad un ragazzo quasi morto mentre disobbediva alle ruspe entrate prepotenti nella terra di sua proprietà, davanti a centinaia di immagini di volti tumefatti  di anziani valliggiani, picchiati senza ritegno dai reparti che occupano la valle, davanti all’evidenza di prove che attestano l’infiltrazione mafiosa in quell’appalto milionario, e davanti, soprattutto, ad un'elaborazione collettiva che dalla valle impone una rivoluzione totale dei concetti di utilità e democrazia. E non abbiamo dimenticato la riforma delle pensioni, e la palese assenza di opposizione ad una legge che aveva già in nuce quella che ora ci troviamo a commentare.
Questo assenso incondizionato al Governo tecnico, questa incapacità di  comprendere qual è il quadro complessivo in cui si muove questo esecutivo adrenalinico  e iper-attivo, così a suo agio nel dialogare sia con la governance merkozy, sia con i luoghi sacri della finanza speculativa americana, sono già la causa di una battaglia sulla riforma del mercato del lavoro che parte al ribasso. L’articolo 18 viene aggredito dal Governo per il suo valore simbolico, per dimostrare che la storia dei movimenti operai e delle conquiste sindacali può essere cancellata con un colpo di spugna e senza troppo rumore, che la tecnocrazia e i suoi costituenti capitalistici non accettano veti. E se il piano del Governo è questo non si può rispondere con una critica specifica, che auspica magari uno sciopero una tantum, tutta schiacciata sul tema dell’articolo 18, perché la Riforma è complessivamente un disastro sociale, un attacco ai garantiti che non allarga affatto le tutele ai  non-garantiti, una condanna alla povertà senza appello per chi verrà messo alla porta e potrà potrà godere di un massimo di 18 mesi di sussidio, buoni magari ad alimentare le schiere debitocratiche che guadagnano sulla crisi, per dare fiato ai mutui e alle cartelle di Equitalia, non certo per aprire nuove prospettive ai lavoratori.
Sciopero, dicevamo, leggiamo ora della sua prima calendarizzazione: come l'anno scorso la Cgil aspetta il sole per scioperare, in modo da poter pompierare con l'acqua di mare tutto ciò che potrebbe prodursi da qui all'inizio dell'estate: altra scadenza che in particolare Alfano ha posto come limite per un primo voto sulla riforma.
Noi, ci sembra inutile dirlo, siamo contro l'abolizione dell'art. 18, ma vorremmo cominciare a difenderlo intrecciando i percorsi di lotta delle valli e delle metropoli precarie, a partire certamente da  quegli avanzamenti di posizione che ha avuto la Fiom negli ultimi anni, che oramai ha idee troppo chiare su Tav, riconversione industriale, reddito di cittadinanza, ruolo delle banche nella crisi per farsi intruppare nella retroguardia di questa battaglia d'occasione. Ma soprattutto vorremmo  che i movimenti sociali, la precarietà urbana e le lotte in difesa dei  territori,  riuscissero a costruire un percorso con i lavoratori dipendenti, con i metal-meccanici attraverso un apporto specifico, che rafforzi il potere conflittuale di tutti, senza contrattare il peso di nessuno. E’ evidente che se a storcere il naso contro la Fornero oggi ci si mette anche la Cei, non possiamo attestarci alla trinceuccia che in queste ore vede perfino la Cisl impegnata per chiedere la possibilità di reintegro per licenziamenti economici, ma che chiederemo invece ai circa 120.000 operai che questa legge mette sulla soglia del baratro sociale di uscire in campo aperto, di cominciare un percorso radicale di contestazione dei costituenti materiali che governano il nostro tempo, e di farlo insieme, nelle fabbriche e nelle piazze, non solo nelle segrete stanze della concertazione, da cui, ci sentiamo di affermare, negli ultimi vent'anni si è registrato solo un arretramento dei diritti, per tutti.
Dalla trincea al campo aperto, per riaprire una faglia nella costituzione materiale del presente, quella che assegna mano libera al capitale per uscire ed entrare da confindustria, quella che consente di utilizzare la flessibilità come via americana allo sfruttamento. Solo sul piano delle forze reali, e quindi sul piano dove giocano gli attori della crisi, si può dare una risposta alle condizioni che il presente ci impone.