Nota a margine di Per un programma di libertà nella crisi: diritto alla bancarotta

27 / 7 / 2009

La beffa:

la teoria economica ci ricorda che la finanza non può contribuire se non in misura modesta ad crescere il risparmio aggregato in via diretta. Il suo apporto principale allo sviluppo economico è indiretto: consiste nell’indirizzare gli investimenti verso gli impieghi socialmente più utili cioè quelli che assicurano la produttività più elevata a parità di rischio e di durata (Violi, Mercato dei derivati, controllo monetario e stabilità finanziarie, Bologna, 2000).

Cosi’ ancora all’alba del terzo millennio ci prendevano per il naso.

Poi tutti hanno visto quali fossero gli impieghi socialmente più utili dell’elaborazione in campo finanziario.

Gli unici danneggiati dalla crisi sono i cd. strati più deboli della popolazione che vedono ridotta la disponibilità delle banche a consentire loro l’accesso al credito e al contempo subiscono la ricaduta della socializzazione delle perdite causate dalla crisi stessa.

Non si può, quindi, che plaudire all’evocazione da parte di Gigi Roggero di un diritto alla bancarotta così superando d’un balzo la rivendicazione del diritto all’insolvenza.

Personalmente assumerei quale inizio del processo di individuazione di una norma moltitudinaria: il “diritto alla solvenza” delle singolarità che la compongono (nel senso che chi vive per ciò solo, dovrà essere considerato sempre solvibile).

Occorre istituzionalizzare il libero e illimitato accesso al credito (in analogia a quanto preteso dal capitale).

Con una precisazione.

La pretesa della moltitudine è di partecipare alla ricchezza che produce, ricchezza che il capitale unicamente erode.

La moltitudine attraversa e condiziona il mondo della rendita.

Retrocedere parte delle utilità sottratte attraverso la cosciente e volontaria insolvenza è atto immediatamente produttivo di un nuovo welfare.

La singolarità nomadi che si riappropriano della ricchezza e dei saperi invertono la dinamica redistributiva, fanno pagare la crisi a chi l’ha causata, ripensano in oggi una nuova forma di welfare sociale e comune (tesi X di la crisi dell’economia globale).

Ma il diritto alla bancarotta è qualcosa, se bene ho inteso, di più.

Trascende l’indiscriminato accesso al credito (che il capitale è costretto, in misura sempre maggiore, ad accordarci) e la conseguente giusta insolvenza per assurgere ad atto normativo, poiché dipinge  e induce la crisi quale sistema di governance e la moltiplica.

Se è più onorevole rapinare una banca che fondarla, ancora meglio è farla esplodere a beneficio di coloro che COMUNQUE sarebbero coinvolti quali unici soggetti passivi (sia del prodotto finanziario che della sua crisi socializzata).

Se lo sfruttamento del comune si presenta come rendita finanziaria, carpire quanto più è possibile da questo meccanismo è istituire comune.

Assumere il diritto alla bancarotta è invocare “il diritto” delle moltitudini: svincolato dall’equivoco pubblico/privato che rivela la sola determinazione della norma esistente al riconoscimento e alla circolazione delle merci.

Il diritto autenticamente tale ha le sue radici nella feconda bassura dell’esperienza in quanto intimamente compenetrato nella reale esperienza storica e sociale di vita dei consociati (Kant), poichè il diritto prima di essere norma è organizzazione, struttura, posizione della società in cui si svolge (Santi Romano, L’ordinamento giuridico, 27).

Allora, le singolarità che si fanno moltitudine non possono che darsi quale avvio di normazione il desiderio di partecipare alla ricchezza. 

Ritenere quale “diritto” un comportamento del singolo che il diritto attuale punisce (a parole) e disdegna (quale tracollo di merci) è già fondare un nuovo diritto, libero dall’oppressione indotta dall’uomo commerciale.

Il capitale si sta adeguando alle mutate condizioni laddove afferma che un punto è certo nell’odierna società globale il diritto positivo non è più storia ma cronaca e anzi ancor meno è cronaca locale. Il diritto naturale tacciato dai giurispositivisti di essere l’antistoria è il solo diritto che oggi aspira ad essere al di la della frantumazione di diritti nazionali il diritto dell’intera umanità … quale si ritrova per la regolazione dei rapporti entro il mercato globale in quei principi generali del diritto civile universalmente riconosciuti cui si è dato il nome evocativo di un antica universalità di nuova lex mercatoria (Galgano, il legittimo e il giusto, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2009, 1).

Contro l’universalità della morte e della merce pare corretto e doveroso invocare la capacità per la singolarità moltitudinaria di esprimersi come potere costituente.