Non è questione di onesti e reprobi

5 / 12 / 2009

Ci sarà naturalmente da rallegrarsi se decine di migliaia di persone saranno in piazza il 5 dicembre a reclamare le dimissioni di Silvio Berlusconi. Il manifesto ci sarà. E altrettanto evidente è che quegli esponenti delle forze di opposizione che se ne terranno alla larga non lo faranno tanto in virtù di una soggettività «altra», ma nella consapevolezza di una soggettività politica debole, incerta, e dunque timorosa di lasciarsi sommergere da un senso comune spurio, incontrollabile, talvolta mosso da pulsioni discutibili. Un senso comune che, tuttavia, non si intende blandire ma neanche scontentare. Che deve tornar buono nelle urne, ma non disturbare i manovratori e i loro astuti compromessi, costringendo così gli uomini del Pd a contorsioni d'ogni genere.

Tuttavia, in quella piazza, non converrà scendere tacendo, adagiati tra le comode braccia dell'ovvio e confortati dal bon ton antiberlusconiano. Converrà scenderci con la propria faccia e le proprie argomentazioni. A cominciare dalla consapevolezza che la partita che si gioca in questo paese non è semplicemente quella tra gli onesti e i reprobi, che gran parte delle ingiustizie che vi si commettono sono ineccepibili dal punto di vista della legalità e che i problemi politici non possono essere risolti per via giudiziaria o giocando a guardie e ladri.

Non, per intendersi, sparando le manette in prima pagina contro il lodo Alfano, ma ricordando piuttosto certe leggi sull'immigrazione o le tossicodipendenze, (che recano anche la firma di quel campione della democrazia che presiede la Camera), le quali, se pure non proteggono le malefatte del Cavaliere, comunque provvedono a mandare in galera (e qualche volta a morte) migliaia di poveracci. Ricordando magari che le forze dell'ordine sono anche quelle di Genova e di Cucchi e la magistratura quella che le assolve, l'ordine e il «decoro» quella mostruosa, persecutoria, regolamentazione delle vite e discriminazione delle diversità che dalla Lombardia leghista dilaga nelle «rosse» città di Bologna e Firenze.


Alla auspicabile folla che scenderà in piazza per contrastare una «anomalia» che infanga il paese, converrà ricordare che il malaffare, le concentrazioni monopolistiche, l'arroganza del potere non sono una inedita prerogativa di Silvio Berlusconi, così come il servilismo e la malafede non lo sono dei cortigiani che oggi lo circondano. Che lo sfruttamento, i privilegi, il restringimento delle libertà individuali e collettive, la persecuzione delle «devianze» sono tutt'altro che una «anomalia», ma accompagnano da un pezzo la storia italiana e coinvolgono numerosi dei suoi protagonisti, tanto conservatori quanto «riformatori».

Molti commentatori incensano, poi, l'ingenuità del popolo dei bloggers, di una gioventù dispersa ma accomunata dall'indignazione. Bisognerebbe sommessamente ricordare che l'ingenuità non è affatto una virtù (come non lo è, per converso, l'astuzia), che non basta denudare il re per deporlo, e deporlo per abolire la monarchia (non è il solo Berlusconi a sognare il presidenzialismo).

Si insiste, infine, da più parti, nel sostenere che la questione della democrazia e quella della legalità coincidono. Non serve essere uno storico o un filosofo della politica per sapere che così non è. Certo, una cosa è quando il potere accresce le sue prerogative infrangendo le regole stesse che lo hanno legittimato imponendogli qualche argine, un'altra quando, dal basso, si contestano e si trasgrediscono leggi inique e oppressive, istituzioni calcificate e soffocanti. Ma c'è da dubitare che questa distinzione possa entrare nella testa di Beppe Grillo, nel programma dell'Italia dei valori o nelle pagine del Fatto.

C'è poco spazio, da quelle parti, per la disobbedienza civile e le pratiche del conflitto. La comune opposizione contro Berlusconi e i suoi sistemi di governo non può cancellare il disagio di trovarsi gomito a gomito con chi tiene in spregio il garantismo, apprezza la tolleranza zero e si accomoda con agio nei rapporti sociali esistenti, o, per fare un esempio, con un baronato accademico e una tecnocrazia anche «di sinistra» che si stanno accordando con la riforma Gelmini.

Prudenza suggerirebbe, infine, di andarci piano con l' «anima collettiva» e i paragoni con la resistenza, la quale, in tutte le sue diverse ispirazioni, certo non si prefiggeva lo scopo di restaurare lo stato e la legalità dell'Italia prefascista, né di affidare la rinascita del paese a una magistratura che avrebbe continuato ad applicare per decenni il codice Rocco.

La democrazia non può essere difesa senza svilupparla, approfondirla, radicalizzarla, poiché non si tratta di un catechismo, di un codice o di un semplice insieme di norme e sacri principi, ma di un agire politico calato nel suo tempo. E nel No B-day, con quel nome un po' sbarazzino, un po' modaiolo, si manifestano più i richiami all'ordine costituito che le ambizioni di un potere costituente. Nonché ben poche di quelle caratteristiche di discontinuità con il passato, di socialità e di linguaggi diversi e alternativi che fanno di una protesta un movimento.

Il che spiega anche l'indifferenza o la diffidenza (di natura opposta a quella di Bersani) che diversi movimenti attivi in questi anni, e tutt'altro che ingenui, dimostrano nei confronti dell'evento antiberlusconiano.

È un passaggio, quello del 5 dicembre, da attraversare senza accodarsi, con la consapevolezza che non si tratta di cavalcare malumori e frustrazioni, ma di costruire una politica di opposizione, che non esiste nei partiti della sinistra, ma neanche nel senso comune ispirato da Grillo e da Travaglio. Per il momento, intanto, sarà saggio accogliere questo suggerimento dello Zarathustra nietzscheano: «diffidate di tutti coloro nei quali è potente l'istinto a punire!» Tra i quali, inutile dirlo, primeggiano Berlusconi e i nazisti strapaesani del nord.

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