Non disperdere il seme

1 / 9 / 2016

È di ieri la notizia dell’istituzione, da parte del Ministro della Salute Lorenzin, del Fertility Day, una grande giornata nazionale di celebrazione del concepimento, previsto per il 22 settembre prossimo.
Questa grande trovata, e la relativa campagna di pubblicizzazione sui social media, aprono una serie di riflessioni sul tema della natalità e della genitorialità e su alcune questioni collegate.

Natalità e welfare

La giustificazione addotta dalla Lorenzin alla creazione della giornata della fertilità è la grave depressione demografica che l’Italia vive ormai da anni. Condizione alla quale gli uomini e le donne degni di essere considerati tali dovrebbero affrettarsi a porre rimedio procreando senza sosta finché possono.  Questa richiesta viene fatta dal governo di un paese in cui le forme di welfare diretto e indiretto, e di sostegno alla genitorialità, sono praticamente inesistenti.
I pochi spiccioli dell’assegno familiare non bastano a coprire che le spese che un neonato comporta, nemmeno nei primi mesi di vita, la mancanza di asili nido pubblici e gratuiti costringe le donne lavoratrici al ricatto degli istituti privati, sui prodotti per la prima infanzia non esiste un’aliquota I.V.A. agevolata. Siamo in un paese in cui spesso alle donne che vengono assunte viene fatta firmare una lettera di dimissioni in bianco, per mettere al sicuro il datore di lavoro da eventuali gravidanze e quindi dal pagamento dei congedi di maternità. Siamo nell’era delle esistenze precarie, degli impieghi a termine, dei tempi di lavoro contingentati ed asserviti. In questo tempo e in questo luogo, al cittadino si chiede di stipulare un patto con lo Stato e di sopperire ad una mancanza. Ma è un patto a perdere, senza nessun aiuto in cambio.

Corpi utili

Uno degli slogan geniali scelti per la campagna è “La bellezza non ha età, la fertilità sì”. Corredato da una sorridentissima donna che con una clessidra in mano ricorda a tutte noi che il tempo scorre, e l’orologio biologico ticchetta. Il registro linguistico e mediatico scelto riesce a sintetizzare in modo quasi magistrale decine di anni di eteronormazione, colpevolizzazione e reificazione del corpo femminile.
Per prima cosa, il corpo della donna viene presentato come un “bene” deperibile, soggetto a scadenza e a deprivazione di valore col tempo che passa. E in seconda istanza, come recita un’altra delle perle rare donateci dal ministero, quello stesso corpo, la sua fertilità, diventano “bene comune”, da mettere a disposizione della collettività e del suo bisogno demografico. Ogni scelta contraria è soggetta a stigmatizzazione sociale, per cui si creano intere categorie di donne, che per qualche ragione non partecipano al processo richiesto dallo stato (concepisci, partorisci, cresci), considerate per questo senza scopo, inutili, meno donne e meno cittadine.
Da sempre una donna che decida di non avere figli e quindi di sottrarsi alla categorizzazione come madre viene considerata innaturale, inumana, anaffettiva. Allo stesso modo chi è incapace di iniziare o portare a termine una gravidanza è imperfetto, deteriorato, sbagliato. Chi quel figlio riesca a concepirlo ma scelga consapevolmente di non tenerlo praticando un aborto diventa un assassino ed un mostro.
Ancora, in un paese dove la fecondazione eterologa è permessa da poco tempo, e non certo per volontà del governo, le coppie omosessuali non hanno ancora linee guida chiare per godere di questa pratica, ed in ogni caso quei figli non avranno gli stessi diritti dei loro omologhi nati da coppie eterosessuali, per quanto riguarda i rapporti giuridici con entrambi i genitori.
Corpi che rifiutano o sono inadeguati a diventare beni comuni, quindi corpi non interessanti, rifiutabili.

Un figlio per la Patria

L’intervento più o meno pervasivo del potere autoritativo nel processo di decisione sulla natalità non è certo una novità assoluta. È del 9 d.C. la Lex Papia Poppaea promulgata da Ottaviano Augusto per incentivare le nascite, tramite un sistema di sanzione, ad esempio in campo ereditario, a danno degli orbi, gli sposati in età fertile e senza figli. L’analogia più immediata è però quella con l’epoca fascista e gli incentivi alla procreazione concessi dal regime. Il meccanismo creato non è dissimile da quello che ci presentano oggi: il figlio che fai non è tuo, è un dono al tuo paese (come lo era al duce durante il ventennio), un sacro dovere a cui si è tenuti ad adempiere, biologia permettendo.
Per ammantare di venerabilità la richiesta, si tira in ballo persino la Costituzione (che quando serve diventa un grande classico), che tutelerebbe “la procreazione cosciente e responsabile”.

È questa idea che dobbiamo rifiutare decisamente. Che nel nostro futuro ci debba essere per forza una culla e dei biberon, che qualcuno possa dall’alto decidere quando dobbiamo fare figli, quanti dobbiamo farne, se dobbiamo farne.
La campagna creata è talmente paradossale che verrebbe da porre alcune provocazioni:

a) Volete i nostri figli? Manteneteceli. Se sono figli di Stato, lo Stato soddisfi i loro bisogni. Faccia in modo che chi decide di diventare genitore possa continuare a lavorare e sia tutelato sul posto di lavoro, lo aiuti economicamente e crei forme di reddito indiretto che sostengano questa decisione.
È ovviamente nient’altro che una provocazione: l’idea che basti un corrispettivo economico per farci riprodurre è un’idea fascista, e non ci interessa. E dovrebbe indignare anche il paese benpensante solo poco tempo fa tanto sdegnato dall’ipotesi dell’utero in affitto.

b) C’è bisogno di bambini in Italia? Ebbene ce ne sono tantissimi, nati qui, che crescono qui, e che poiché sono figli di migranti non sono considerati cittadini italiani fino alla maggiore età. Istituiamo lo ius soli e facciamo sì che ogni nuovo nato sul nostro territorio acquisti automaticamente tutti i diritti che la cittadinanza comporta. Non solo: teniamo le frontiere aperte, creiamo meccanismi veri di accoglienza, diamo diritti a coloro che chiedono di restare nel Paese. Così, e non con la riproduzione scellerata, si affronta il problema del progressivo invecchiamento della popolazione.