È di ieri la notizia dell’istituzione, da parte del Ministro
della Salute Lorenzin, del Fertility Day,
una grande giornata nazionale di celebrazione del concepimento, previsto
per il 22 settembre prossimo.
Questa grande trovata, e la relativa campagna di pubblicizzazione sui social
media, aprono una serie di riflessioni sul tema della natalità e della
genitorialità e su alcune questioni collegate.
Natalità e welfare
La giustificazione addotta dalla Lorenzin alla creazione
della giornata della fertilità è la grave depressione demografica che l’Italia
vive ormai da anni. Condizione alla quale gli uomini e le donne degni di essere
considerati tali dovrebbero affrettarsi a porre rimedio procreando senza sosta
finché possono. Questa richiesta viene
fatta dal governo di un paese in cui le forme di welfare diretto e indiretto, e
di sostegno alla genitorialità, sono praticamente inesistenti.
I pochi spiccioli dell’assegno familiare non bastano a coprire che le spese che
un neonato comporta, nemmeno nei primi mesi di vita, la mancanza di asili nido
pubblici e gratuiti costringe le donne lavoratrici al ricatto degli istituti
privati, sui prodotti per la prima infanzia non esiste un’aliquota I.V.A.
agevolata. Siamo in un paese in cui spesso alle donne che vengono assunte viene
fatta firmare una lettera di dimissioni in bianco, per mettere al sicuro il
datore di lavoro da eventuali gravidanze e quindi dal pagamento dei congedi di
maternità. Siamo nell’era delle esistenze precarie, degli impieghi a termine,
dei tempi di lavoro contingentati ed asserviti. In questo tempo e in questo
luogo, al cittadino si chiede di stipulare un patto con lo Stato e di sopperire
ad una mancanza. Ma è un patto a perdere, senza nessun aiuto in cambio.
Corpi utili
Uno degli slogan geniali scelti per la campagna è “La
bellezza non ha età, la fertilità sì”. Corredato da una sorridentissima donna
che con una clessidra in mano ricorda a tutte noi che il tempo scorre, e
l’orologio biologico ticchetta. Il registro linguistico e mediatico scelto
riesce a sintetizzare in modo quasi magistrale decine di anni di
eteronormazione, colpevolizzazione e reificazione del corpo femminile.
Per prima cosa, il corpo della donna viene presentato come un “bene”
deperibile, soggetto a scadenza e a deprivazione di valore col tempo che passa.
E in seconda istanza, come recita un’altra delle perle rare donateci dal
ministero, quello stesso corpo, la sua fertilità, diventano “bene comune”, da
mettere a disposizione della collettività e del suo bisogno demografico. Ogni
scelta contraria è soggetta a stigmatizzazione sociale, per cui si creano
intere categorie di donne, che per qualche ragione non partecipano al processo
richiesto dallo stato (concepisci, partorisci, cresci), considerate per questo
senza scopo, inutili, meno donne e meno cittadine.
Da sempre una donna che decida di non avere figli e quindi di sottrarsi alla
categorizzazione come madre viene considerata innaturale, inumana, anaffettiva.
Allo stesso modo chi è incapace di iniziare o portare a termine una gravidanza
è imperfetto, deteriorato, sbagliato. Chi quel figlio riesca a concepirlo ma
scelga consapevolmente di non tenerlo praticando un aborto diventa un assassino
ed un mostro.
Ancora, in un paese dove la fecondazione eterologa è permessa da poco tempo, e non certo per volontà del governo, le coppie
omosessuali non hanno ancora linee guida chiare per godere di questa pratica, ed in ogni
caso quei figli non avranno gli stessi diritti dei loro omologhi nati da coppie
eterosessuali, per quanto riguarda i rapporti giuridici con entrambi i
genitori.
Corpi che rifiutano o sono inadeguati a diventare beni comuni, quindi corpi non
interessanti, rifiutabili.
Un figlio per la Patria
L’intervento più o meno pervasivo del potere autoritativo nel
processo di decisione sulla natalità non è certo una novità assoluta. È del 9
d.C. la Lex Papia Poppaea promulgata
da Ottaviano Augusto per incentivare le nascite, tramite un sistema di
sanzione, ad esempio in campo ereditario, a danno degli orbi, gli sposati in età fertile e senza figli. L’analogia più
immediata è però quella con l’epoca fascista e gli incentivi alla procreazione
concessi dal regime. Il meccanismo creato non è dissimile da quello che ci
presentano oggi: il figlio che fai non è tuo, è un dono al tuo paese (come lo
era al duce durante il ventennio), un sacro dovere a cui si è tenuti ad
adempiere, biologia permettendo.
Per ammantare di venerabilità la richiesta, si tira in ballo persino la
Costituzione (che quando serve diventa un grande classico), che tutelerebbe “la
procreazione cosciente e responsabile”.
È questa idea che dobbiamo rifiutare decisamente. Che nel
nostro futuro ci debba essere per forza una culla e dei biberon, che qualcuno possa
dall’alto decidere quando dobbiamo fare figli, quanti dobbiamo farne, se
dobbiamo farne.
La campagna creata è talmente paradossale che verrebbe da porre alcune
provocazioni:
a) Volete i nostri figli? Manteneteceli. Se sono figli di
Stato, lo Stato soddisfi i loro bisogni. Faccia in modo che chi decide di
diventare genitore possa continuare a lavorare e sia tutelato sul posto di
lavoro, lo aiuti economicamente e crei forme di reddito indiretto che
sostengano questa decisione.
È ovviamente nient’altro che una provocazione: l’idea che basti un
corrispettivo economico per farci riprodurre è un’idea fascista, e non ci
interessa. E dovrebbe indignare anche il paese benpensante solo poco tempo fa
tanto sdegnato dall’ipotesi dell’utero in affitto.
b) C’è bisogno di bambini in Italia? Ebbene ce ne sono tantissimi, nati qui, che crescono qui, e che poiché sono figli di migranti non sono considerati cittadini italiani fino alla maggiore età. Istituiamo lo ius soli e facciamo sì che ogni nuovo nato sul nostro territorio acquisti automaticamente tutti i diritti che la cittadinanza comporta. Non solo: teniamo le frontiere aperte, creiamo meccanismi veri di accoglienza, diamo diritti a coloro che chiedono di restare nel Paese. Così, e non con la riproduzione scellerata, si affronta il problema del progressivo invecchiamento della popolazione.