Noi lo sapevamo già, bastardi!

Si apre un nuovo capitolo nelle indagini sulla morte di Stefano Cucchi

13 / 12 / 2015

Ci sono quei momenti in cui succedono cose che elevano all’ennesima potenza il senso di frustrazione per chi, da sempre, ha lottato contro gli abusi in divisa e da anni si esprime contro i soprusi e la violenza “legalizzata”, che in diversi casi abbiamo visto, letto e magari anche vissuto qui in Italia.

Sono tanti i nomi: Carlo, Federico, Giuseppe, Aldo, Michele, Stefano; solo alcuni tra le vittime dei comportamenti illegali da parte delle forze dell’ordine. E decedute nelle circostanze più diverse: chi in carcere, chi a manganellate e chi per colpi di pistola sparati ad altezza uomo. Tutte morti che sono avvolte ancora nel mistero, tutte vicende che sono salite alla ribalta dei media nazionali e che per la maggior parte dei casi si sono configurate nella estenuante lunghezza di processi che quasi mai hanno portato alla condanna degli agenti imputati: pochissimi sono stati condannati, la maggior parte è ancora in attesa di giudizio se non assolta.

Da ieri si torna a parlare di Stefano Cucchi: che lui fosse stato picchiato noi lo sapevamo già e che quelle lesioni fossero necessariamente legate a delle percosse anche. Si tratta di una certezza per i familiari e per tutti coloro che sono rimasti  impressionati dalle dure immagini del corpo esanime coperto dagli ematomi. Dal 22 ottobre del 2009 - data del decesso di Cucchi - tutta la vicenda è stata permeata da impunità, omertà, falso, errore, trascuratezza e da un senso di disprezzo verso i deboli, emarginati.

E allora non si dovrebbe forse partire dalla radice? Non sarebbe il caso di ragionare sul fatto che non sia possibile che non esista in primis un limite che le “forze dell’ordine” non dovreb­bero oltre­pas­sare quando intervengono, e che bisogna ridefinire il concetto di violenza nel momento in cui non usare oggetti contundenti, ma immobilizzare e picchiare incessantemente una persona non possono essere giustificati come “mezzi necessari per vincere la resistenza”, soprattutto se questi colpi portano poi alla morte?

Il problema è che se questi “interventi” vengono definiti in ambiti giurisdizionali come “azioni contenitive”, ossia quelle azioni che mirano a contenere i danni provocati dall'errore o dalla problematica eliminandone i sintomi, e hanno carattere provvisorio; ecco che nasce il dilemma: come già detto le forze dell’ordine possono agire a loro piacimento e queste azioni di contenimento possono sfociare in qualsiasi tipo di violenza, dal momento in cui viene giustificata dalla legittimità dell’arresto.

Così torniamo al nocciolo della vicenda. Stefano Cucchi ha perso la vita dopo un pestaggio nella stazione dei Carabinieri appartenenti al comando stazione di Roma Appia. I colpevoli sono stati individuati già da tempo tra carabinieri, secondini e medici.

La verità comincia adesso a venire a galla eppure ci sono voluti 6 anni perché accadesse. La Procura di Roma ha messo nero su bianco i dubbi sulle indagini nella richiesta di incidente probatorio inviata al giudice per le indagini preliminari, principalmente per chiedere una nuova perizia al medico legale nell’ambito dell’inchiesta bis, che ha visto salire a 5 il numero di carabinieri iscritti nel registro degli indagati: nelle figure di Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco (tutti per lesioni personali aggravate e abuso d’autorità), nonché di Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini (per falsa testimonianza, Nicolardi con l’aggravante anche di false informazioni al pm). A questo si è aggiunta l’intercettazione di una conversazione tra l’ex moglie di uno dei carabinieri indagati e lo stesso militare “Hai raccontato la perquisizione... hai raccontato di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda. Non ti preoccupare... che poco alla volta ci arriveranno perché tu mi hai raccontato a me... lo hai raccontato a tanta gente di quello che hai fatto”.

La situazione adesso è questa: a pochi giorni dalla sentenza in Cassazione, che si terrà il 15 dicembre e che valuterà la legittimità della sentenza del 31 ottobre 2014 con cui la Corte d’Assise d’appello di Roma assolse tutti gli imputati, si apre un nuovo capitolo nelle indagini sulla morte di Stefano Cucchi.

Allora sorge spontanea l’esigenza, di fronte a questo, riaprire un serio dibattito: la questione dell'impunità delle forze dell'ordine è sempre più un’urgenza, a maggior ragione in una situazione di crisi sociale ed economica sempre più crescente, la quale si traduce con l’incremento di nuovi poveri, che nell'assenza di alternative alla miseria “si arrangiano” anche con metodi definiti delinquenziali o illegali. Se poi la soluzione al problema si tramuta nell’incarcerazione si apre un mondo ancora più vasto, ossia la situazione delle carceri italiane e l’aumento dei suicidi al suo interno.

La domanda è questa: si può affrontare la questione della sicurezza, nel clima che si sta delineando ora in Italia, dovuto alla crisi ma non solo, in chiave unicamente giustizialista? Ossia a tale trasgressione, tale pena? Il discorso è molto ampio, però se ormai nella mentalità collettiva è difficile che una pena prescinda dalla reclusione, va anche detto che la tanto citata Costituzione (all’art 27) afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Attraverso leggi ordinarie la privazione della libertà è stata introdotta come dispositivo sanzionatorio di fronte alla violazione delle leggi penali. Senza entrare in merito sul fatto che questo strumento sia giusto o sbagliato la questione è un’altra.

Questa soluzione ha principi rieducativi? Oppure si traduce in una degradazione sempre più pesante del soggetto incarcerato? Serve un sistema carcerario che non riduce il tasso generale di criminalità, ma affina le capacità delinquenziali di coloro che vi sono rinchiusi nel momento in cui gli si nega un’alternativa o la possibilità di riscatto? Se aggiungiamo a questo lo spirito di afflizione con cui i detenuti trascorrono le loro giornate, determinato dai soprusi che la polizia del carcere si sente legittimata a commettere, arriviamo davanti ad un quadro allarmante. E non è nemmeno una "faccenda" nascosta nel momento in cui l’Italia, - sì proprio l’Italia famosa per “pizza, spaghetti e mandolino”- è stata condannata dalla Corte Europea per aver sottoposto i detenuti a trattamenti inumani o degradanti, non distanti dalla tortura. Non dimentichiamo neppure le circa 200 intimazioni del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite affinché nel nostro ordinamento venga introdotto il reato di tortura, che nonostante i mille propositi di Governo e Parlamento, non è ancora stato inserito nel nostro codice penale con una legge che è ferma ormai da oltre sette mesi al Senato.

Gli abusi in divisa ci sono e sono ancora pochi e isolati coloro che hanno il coraggio di denunciare quel clima di impunità e omertà all'interno delle forze dell'ordine che troppo spesso viene messo a tacere. Ma la cosa che più inquieta è che gli apparati polizieschi, a vari livelli, stanno assumendo una gestione del potere che si intreccia sempre più con il politico, un esempio? I provvedimenti repressivi decisi direttamente dalle Questure. Non dimentichiamoci, inoltre, i nuovi dispositivi di sicurezza che potrebbero essere dati in dotazione alle forze dell’ordine per affrontare “problemi di pubblica sicurezza”.

La “polizia” ci picchia, e fa male, lo fa volontariamente e probabilmente ci gode anche, lo fa perché è protetta e perché sa di poter agire impunita. Ci picchia durante le manifestazioni. Ci picchia quando sgombera una casa. Ci picchia quando arriviamo in Italia nella speranza di una vita migliore. Ci picchia quando chiediamo una scuola riscaldata. Ci picchia se ci piace fumarci le canne o il nostro hobby è andare allo stadio.

La storia di Stefano Cucchi si è riusciti a raccontarla, non ha ancora avuto giustizia, ed è un triste spaccato di come funzioni il sistema italiano; così di fronte alla prossima sentenza del 15 dicembre è necessario interrogarsi su quanto questa ci riguardi, come la situazione ci riguardi. Tutti.