Convergere. Facile a dirsi, faticoso a farsi. Ma ci
si prova. La diversità di culture si può misurare bene nel workshop su
«Democrazia e welfare; salario, reddito, redistribuzione della
ricchezza». Si alternano al microfono giovani precari, maturi quadri
sindacali di scuola Pci, altrettanto maturi esponenti della scuola
«negriana».
Bisogna demolire un po' di convincimenti storici, e quindi
si può allibire sorridendo se un padrone di casa (regno dei «padovani»)
ammette che «è stato un errore parlare di lavoro immateriale, perché il
lavoro è sempre fatica e sfruttamento». E poi sentir ripetere
ragionamenti che vedono la redistribuzione della ricchezza quasi come un
bottino da spartire, dall'origine incerta (sul piano teorico) e a volte
confondibile con le allucinanti retribuzioni dei manager (record
assoluto di citazioni per Marchionne: «1.037 volte il salario operaio»).
O anche sull'«estrazione del plusvalore in ogni ambito della vita».
Dall'altra
parte, un'attenzione mai vista prima a rivendicazioni sociali (come il
«reddito di cittadinanza»), ma inquadrandole come cornice necessaria
alla «possibilità di dire no in fabbrica, trovando nuovi strumenti di
difesa se nel farlo ti licenziano»). E glissando a ragion veduta sulle
asprezze del contrattualismo sindacale, sul nesso tra lotta, conquiste,
diritti formalizzati e scritti.
Si cerca di indirizzare il ragionar
comune in senso «pragmatico», sul cosa fare e come farlo, tenendo
insieme «azione e riflessione», misurando ogni proposta col metro
dell'«efficacia delle iniziative». E' il metro giusto, si vede presto,
che lascia fumigar nell'aria le formule retoriche o filosofiche e
riporta sempre «al presente». La crisi, del resto, sta obbligando tutti a
«fare». En passant, salta per aria come normale una distinzione teorica
con 40 anni di storia: quella «tra garantiti e non, tra stabili e
precari». Perché - ed è un ragazzo, nella media, a dirlo - «non c'è più
la percezione che la precarietà sia una condizione transitoria legata
all'età giovanile». Paradossalmente è vista come «una realtà stabile».
Una presa di coscienza che ha coinvolto soprattutto gli universitari,
che hanno preso le distanze culturali dall'«Onda», in cui è stata
riconosciuta una «sopravvivenza corporativa». E dai ricercatori che si
sono resi «indisponibili» a far lezione al posto dei cattedratici,
ovvero a lavorare senza retribuzione e senza contratto.
A dominare
tutto c'è la realtà della «povertà», che coinvolge ora «la condizione
operaia e gli stessi ceti medi».Non è più, se mai lo è stata, «un
effetto collaterale della finanziarizzazione dell'economia, ma un dato
strutturale». Ed implica «una disponibilità ad accettare qualsiasi
condizione di lavoro». Qui torna, ma in termini concreti, la funzione
del contratto nazionale di lavoro come «rigidità imposta dal basso»,
«livello minimo sotto cui non si può andare». Si può anche provare a
declinare il reddito garantito come sostitutivo di questo ruolo - c'è
chi è intervenuto in tal senso - ma resta in sospeso quale livello di
«contrattazione sociale» possa garantire lo stesso risultato che persino
«lo stare al lavoro» copre sempre meno.
Niente distinguo, la crisi obbliga tutti a «fare»
23 / 1 / 2011
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