Niente distinguo, la crisi obbliga tutti a «fare»

23 / 1 / 2011

Convergere. Facile a dirsi, faticoso a farsi. Ma ci si prova. La diversità di culture si può misurare bene nel workshop su «Democrazia e welfare; salario, reddito, redistribuzione della ricchezza». Si alternano al microfono giovani precari, maturi quadri sindacali di scuola Pci, altrettanto maturi esponenti della scuola «negriana».

Bisogna demolire un po' di convincimenti storici, e quindi si può allibire sorridendo se un padrone di casa (regno dei «padovani») ammette che «è stato un errore parlare di lavoro immateriale, perché il lavoro è sempre fatica e sfruttamento». E poi sentir ripetere ragionamenti che vedono la redistribuzione della ricchezza quasi come un bottino da spartire, dall'origine incerta (sul piano teorico) e a volte confondibile con le allucinanti retribuzioni dei manager (record assoluto di citazioni per Marchionne: «1.037 volte il salario operaio»). O anche sull'«estrazione del plusvalore in ogni ambito della vita».

Dall'altra parte, un'attenzione mai vista prima a rivendicazioni sociali (come il «reddito di cittadinanza»), ma inquadrandole come cornice necessaria alla «possibilità di dire no in fabbrica, trovando nuovi strumenti di difesa se nel farlo ti licenziano»). E glissando a ragion veduta sulle asprezze del contrattualismo sindacale, sul nesso tra lotta, conquiste, diritti formalizzati e scritti.
Si cerca di indirizzare il ragionar comune in senso «pragmatico», sul cosa fare e come farlo, tenendo insieme «azione e riflessione», misurando ogni proposta col metro dell'«efficacia delle iniziative». E' il metro giusto, si vede presto, che lascia fumigar nell'aria le formule retoriche o filosofiche e riporta sempre «al presente». La crisi, del resto, sta obbligando tutti a «fare». En passant, salta per aria come normale una distinzione teorica con 40 anni di storia: quella «tra garantiti e non, tra stabili e precari». Perché - ed è un ragazzo, nella media, a dirlo - «non c'è più la percezione che la precarietà sia una condizione transitoria legata all'età giovanile». Paradossalmente è vista come «una realtà stabile». Una presa di coscienza che ha coinvolto soprattutto gli universitari, che hanno preso le distanze culturali dall'«Onda», in cui è stata riconosciuta una «sopravvivenza corporativa». E dai ricercatori che si sono resi «indisponibili» a far lezione al posto dei cattedratici, ovvero a lavorare senza retribuzione e senza contratto.

A dominare tutto c'è la realtà della «povertà», che coinvolge ora «la condizione operaia e gli stessi ceti medi».
Non è più, se mai lo è stata, «un effetto collaterale della finanziarizzazione dell'economia, ma un dato strutturale». Ed implica «una disponibilità ad accettare qualsiasi condizione di lavoro». Qui torna, ma in termini concreti, la funzione del contratto nazionale di lavoro come «rigidità imposta dal basso», «livello minimo sotto cui non si può andare». Si può anche provare a declinare il reddito garantito come sostitutivo di questo ruolo - c'è chi è intervenuto in tal senso - ma resta in sospeso quale livello di «contrattazione sociale» possa garantire lo stesso risultato che persino «lo stare al lavoro» copre sempre meno.