Nessuna Europa può farcela con i confini e l’austerità

24 / 8 / 2015

 Trapani, Messina, Ventimiglia, Calais, Gevgelija, Kos. Nelle ultime settimane le notizie dell’arrivo di decine di migliaia di migranti che si avvicinano alle frontiere della fortezza Europa sono state incessanti. A dispetto dei media mainstream, sembra che la forma stessa della narrazione sfugga loro di mano: non è più possibile raccontare il caso soltanto dal punto di vista dell’emergenza, dell’eccezione; qui stiamo parlando di un fenomeno storico e sociale quotidiano che ha delle cause precise. Ed ha bisogno di risposte, soluzioni a livello continentale. Come è possibile parlare di emergenza, di un fatto estemporaneo, se migliaia – ribadiamo, migliaia - di persone vengono rinchiuse in uno stadio di un’isola di trentamila abitanti senza alcun tipo di assistenza sanitaria e legale, accoglienza di base e risposte sul proprio futuro? E’ un’emergenza il sovraffollamento della piccola cittadina macedone al confine con la Grecia dove almeno diecimila migranti sono passati e che negli scorsi giorni è stata luogo di soprusi polizieschi, con lancio di lacrimogeni, bombe stordenti e manganellate sui corpi di uomini, donne e bambini stremati dai chilometri percorsi? Allo stesso modo può apparire come un’urgenza il continuo intervento della polizia a Calais, che sgombera edifici occupati per i diritti dei migranti, pattuglia l’entrata del tunnel della Manica e blocca i migranti senza assicurare un’accoglienza degna? E i migranti sugli scogli di Ventimiglia? I continui arrivi sulle coste siciliane di barche e gommoni, che trasportano persone in condizioni sempre più precarie rischiando di precipitare sul fondo del Mediterraneo?

Alla radice del problema sta la creazione dell’emergenza. Questa è un prodotto delle scelte delle istituzioni locali, ma soprattutto degli organi politici europei. I vuoti giuridici in materia di migrazione e accoglienza a livello comunitario, le scelte scellerate dei partiti politici al governo che non rispettano l’umanità ed i diritti basilari della persona, l’inarrestabile scaricabarile reciproco tra Stati sulla “quota” di accoglienza – come se parlassimo di merce, di oggetti da vendere -, rappresentano i motivi per cui la migrazione è trattata in modo emergenziale. Le proposte avanzate finora vertono su delle soluzioni temporanee, come quale centro di identificazione e smistamento organizzare per i prossimi giorni, dove trasferire i numeri in esubero, eccetera. Il mondo europeo della politica non mette in questione la costituzione stessa dell’Unione Europea, la criminalità dei suoi confini, le conseguenze sociali che il suo intervento nelle zone del Mediterraneo e del Medio Oriente ha causato. La temporalità della risposta del fenomeno della migrazione non si estende mai oltre il contingente, la situazione specifica, perché appunto non si vuole fratturare uno dei pilastri che regge l’unione politica ed economica del Vecchio Continente. Le notizie che vengono da queste città protagoniste del passaggio dei migranti non possono più essere ridotte a un qualcosa che prima o poi finirà: l’emergenza la si crea se si stipano le persone in uno stadio senza permettere che possano raggiungere i luoghi desiderati, se il sistema di accoglienza è insufficiente o inesistente, se i respingimenti e la chiusura ideologica della frontiere provocano le stragi in mare.

Il Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, ha quindi deciso di intervenire con un discorso pubblico rilasciato a mezzo stampa, cogliendo l’occasione nella sua risposta ad una accusa tedesca mossagli sul quotidiano Die Welt. Consapevole che il concetto e il termine di emergenza non riguardi il fenomeno in sé, ma la gestione politica della migrazione, ha parlato di un progetto per certi versi di riforma dei sistemi e dei provvedimenti europei. Nessuno Stato da solo può farcela, così titola il suo testo; delle parole che ricalcano la sua volontà di lunga data di centralizzare ancora di più la decisionalità delle istituzioni comunitarie scavalcando i passaggi (che sono diventati comunque puramente formali) degli Stati nazionali. Se è vero che sui diritti e sull’indirizzo politico è necessaria una risposta europea e un adeguamento legislativo di tutti i membri dell’Unione, quello che ha in mente Juncker puzza di rafforzamento delle gerarchie e dei rapporti di forza internazionali più che di cooperazione. Inutile dire che la posizione presa dalla Francia, completamente cieca di fronte alle richieste e alle volontà dei migranti, tenderà verso una politica dei respingimenti, anche nei Paesi extra-comunitari cosiddetti sicuri – e infatti sono i termini con cui parlano di migrazione Hollande e Merkel. E il peso politico francese si farà sentire in una scelta che ha la velleità di essere collegiale. Ma entriamo nel merito di ciò che dice Juncker.

Il Presidente sostiene che la sua Europa non sia quella della xenofobia, del razzismo, dell’odio, ma quella della solidarietà. E’ il motivo per cui le nostre istituzioni hanno “triplicato la nostra presenza nel Mediterraneo” e “sosteniamo gli Stati membri inviando nelle regioni più interessate dal fenomeno squadre della Frontex”. E’ bene ricordare a Juncker che la solidarietà si dimostra, innanzitutto, instaurando dei canali umanitari che facciano attraversare il mare ed i territori con le garanzie dovute per la salvaguardia delle vite delle persone; tale azione sarebbe la vera forza contrastante il traffico umano degli scafisti, non certo l’intervento militare sulle coste libiche come viene evocato da alcuni, ad esempio. Una cosa, quella del canale umanitario, che l’Europa ha sempre rifiutato di fare, optando per l’appalto costosissimo del controllo delle frontiere all’agenzia Frontex, che si occupa di pattugliare e respingere le barche provenienti dal Nord Africa, non certo di instaurare delle vie sicure di accesso. Per non parlare delle nuove operazioni che dovrebbero salvare le barche dei migranti: negli anni hanno subito restringimenti di forze e limitazione dei chilometri di sorveglianza dalla terraferma europea. I centri di accoglienza e di identificazione, salvo rarissime eccezioni non certo presenti in Italia, non sono efficienti e non funzionano “grazie a squadre” che in ogni modo “aiutano le autorità locali […] ad accelerare il disbrigo burocratico delle richieste di asilo”. I centri sono carenti in quanto a standard di abitabilità, non permettono una reale osmosi tra il loro interno e l’esterno del territorio, non offrono di per sé corsi di italiano (che vengono fatti dalle associazioni e dalle realtà sociali), sono in sostanza dei posti di detenzione e di trattenimento che rendono inesistente qualsiasi tipo di diritto all’accoglienza. Del resto, se l’intenzione alla base di tutto il sistema rimane la distinzione tra i richiedenti asilo ed i migranti economici, e poi in ultima istanza tra chi ha ottenuto l’asilo e chi no (come in queste settimane avviene spesso distinguendo tra i siriani e gli afghani, per esempio), i centri non possono che avere questa funzione. Infatti, Juncker tiene a precisare che “concludiamo accordi di rimpatrio che agevolano il ritorno al Paese d’origine”, impedendo di fatto a migliaia di migranti la libertà di movimento e il congiungimento con i propri affetti. Per non parlare della proposta della distribuzione dei migranti richiedenti asilo, prevista per quarantamila persone, tra Stati membri. Oltre a non considerare i numeri statistici della migrazione in Europa, compresa dei richiedenti asilo, essa pone una distinzione sulla base dello status di profugo o meno; inoltre, non si sta ancora parlando del criterio della distribuzione. Se un siriano che vuole raggiungere la Germania perché ha un’attività, un parente o un amico che può assicurargli in un certo modo un futuro, fosse assegnato alla Spagna?

Il problema sta nella validità del Trattato di Dublino e nell’esclusività di Schengen per i cittadini comunitari. Sta nella resistenza che l’Europa sta continuando ad avere nei confronti non solo di chi fugge dai conflitti militari, di cui in parte è responsabile l’Occidente, ma anche di chi emigra perché cerca una nuova possibilità. Che sia la povertà economica o la degradazione della situazione ambientale e sociale in cui si vive, i cosiddetti migranti forzati sono sempre di più e anche loro rappresentano il lato oscuro della coscienza europea ed occidentale. Lo sfruttamento delle aree petrolifere e dei giacimenti di gas da parte delle aziende e corporations occidentali, le cui cave e trivellazioni hanno causato forestare e desertificare intere regioni, hanno portato intere popolazioni a soffrire la carenza di risorse e a trovarsi in un ambiente in cui la soglia di vivibilità è scesa notevolmente. Senza menzionare, tra l’altro, che l’accaparramento e il monopolio delle risorse energetiche è ragione delle principali guerre geopolitiche in molti scenari extra-europei o ai confini del nostro continente.

Il fatto stesso che Juncker non parli di tutto questo, o dia una risposta che non affonda nel problema, è l’indice che non ci sia volontà di cambiare. E’ meglio non ammettere i difetti strutturali che rischierebbero di cambiare tutto. Già, perché edificare un sistema di accoglienza degna che abbia la funzione sociale di inserimento nel tessuto territoriale professionale, di relazioni e welfare, cozza apertamente con il dogma del neoliberismo: l’austerità. Il trasferimento di flussi finanziari, di soldi, per l’implementazione di un sistema pubblico che istituisca canali umanitari anche nei Paesi non comunitari come la Macedonia e il Nord Africa, che accolga i migranti, faciliti i ricongiungimenti e l’arrivo nelle città di destinazioni di chi si muove, significherebbe fare haircut del debito e impostare altre politiche economiche. Significherebbe dare priorità ai diritti sociali piuttosto che alla maturazione degli interessi per i crediti verso gli Stati che hanno gli azionisti privati e pubblici. Il Presidente della Commissione – organo economico che non deve avere alcun legame con la politica, ma essere formato dai portatori di interesse per lo sviluppo – come farebbe a sostenere tutto questo? E’ inutile riempirsi la bocca di tante belle parole, pavoneggiarsi pubblicamente delle grandi idee liberali di uguaglianza e libertà, se queste finiscono per non essere sostanziate e diventare, inevitabilmente, differenziali in base all’etnia e la provenienza (così come alla classe e al genere).

L’ “Europa dei pensionati di Calais”, “degli studenti di Sigen” e del “fornaio di Kos” è vero che dimostrano solidarietà e portano avanti dei valori portanti per la costruzione di una vera Europa politica. Ma nel gesto di queste persone sta non soltanto l’umanità, ma anche l’auto-organizzazione – e vadiamo le associazioni a Calais, l’ex-albergo autogestito a Kos, ecc. – dei cittadini che garantiscono un welfare dal basso ai migranti ogni giorno. E costoro sanno benissimo che un vero cambiamento in Europa deve passare per l’abbattimento dei confini e la redistribuzione della ricchezza. Solo in questo modo si evita di creare da parte nostra l’emergenza. Partiamo quindi dalle soluzioni concrete che possono adeguare tutti gli Stati membri, a partire dal livello di eguaglianza e di giustizia: l'abolizione del Trattato di Dublino, l'istituzione dei canali umanitari, il finanziamento al welfare dell'accoglienza nei territori locali