Neocolonialismo, cibo e migrazioni: intervista a Gabriele Proglio

"Approcciare l’immigrazione in una prospettiva che tenga insieme più campi tematici è fondamentale"

30 / 9 / 2022

È iniziata il 27 settembre a Torino la quarta edizione del Festival delle Migrazioni, sei giornate di incontri, spettacoli, concerti, laboratori, convivialità intorno al tema delle migrazioni dislocate in vari luoghi della città.

Tra i variegati ed interessanti appuntamenti (programma completo qui), si terrà sabato 1° ottobre in San Pietro in Vincoli il dibattito “Sguardi e metafore su cibo e migrazione”, in collaborazione con l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo.

Andando oltre l’elemento culturale, il cibo ha una valenza fondamentale nella relazione tra migrazioni, dinamiche geopolitiche e cambiamenti climatici. Tra i relatori della giornata abbiamo intervistato Gabriele Proglio, docente dell’UNISG, che nel suo intervento analizzerà il rapporto tra cambiamenti climatici, crisi alimentare globale, conflitti e migrazioni.

Ciao Gabriele e grazie per la disponibilità. La relazione che terrai al Festival delle Migrazioni di Torino inserisce l’elemento del cibo collegato a quello della sovranità alimentare. Molte volte si associa la questione del cibo solo agli aspetti culturali ma poco a quelli geopolitici e della sovranità alimentare delle popolazioni, un tema che a differenza di altri non viene considerato quando si parla di fenomeni migratori.

Credo che approcciare la questione dell’immigrazione in una prospettiva che tenga insieme più campi tematici è fondamentale per non restringere il campo al movimento delle persone verso l’Europa, questo vuol dire che i fattori che determinano una migrazione sono molteplici. Se invece di parlare al singolare decliniamo questo termine al plurale, ossia migrazioni, allora la complessità diventa realmente tantissima e quindi la questione del cibo se approcciata in questa prospettiva dà delle lenti di interpretazione che sono molto importanti, non solamente sul presente, su quello che sta accadendo, ma anche sul lato storico, cioè sull’eredità del colonialismo, dei colonialismi, e sull’ingerenza e sul rapporto tra stati nazione in un contesto di confini, di spazi di mobilità, di persone, di cibi, di saperi, di culture. 

Questo tipo di approccio è anche importante per comprendere come l’eredità dei colonialismi abbia oggi una forma differente, ma che eredita come dicevo prima, un pacchetto, un bagaglio culturale che non è ancora stato decolonizzato, o che perlomeno molti studiosi e molte studiose stanno cercando di decolonizzare. Non è solamente la questione della razza, del genere e dell’etnicità che determinano il rapporto sulla mobilità delle persone, ma va letto questo in una prospettiva che tenga conto anche, soprattutto, e che parta da una questione di classe, cioè dei capitali e di come si muovono e, per usare un termine che viene utilizzato nei border studies, come i confini selezionino i corpi, quindi attraverso quel processo che possiamo definire con il temine di “inclusione differenziale”. 

Cosa vuol dire? Che alcuni riposizionamenti di persone vengono permessi: la mobilità, l’accesso agli stati nazionali o all’Europa, ma potremmo declinarlo su qualsiasi altro territorio, è permesso e altri invece vengono vietati. Perché vengono permessi? Perché poi queste persone vengono utilizzate in lavori sottopagati, vengono utilizzate in agricoltura e nei lavori più precari e più usuranti dal punto di vista proprio fisico. Oltre a questo fattore, quindi come funzionano i confini in relazione al colonialismo, ai colonialismi e alla loro eredità, c’è un altro fattore che spesso viene tralasciato, ovvero l’estrattivismo del capitalismo e dei vari capitali. Mi riferisco all’Africa ma potremmo parlare di qualsiasi Sud globale, di come i capitali che siano collocati in Europa o in altre parti del mondo, o che siano capitali finanziari, e quindi siano dislocati in diversi posti anche se in una banca precisa o in un fondo preciso, agiscono nell’estrarre valore da terre, ovvero land grabbing e water grabbing. Il neocolonialismo ha proprio questa impronta, cioè di acquistare terre o di controllare acque per generare un profitto. Se teniamo insieme queste due parti, ovvero le migrazioni da una parte e l’estrattivismo, il neocolonialismo, land grabbing e water grabbing, dall’altra, allora l’interpretazione delle migrazioni cambia in maniera netta.

Faccio un esempio concreto, le monoculture in Tunisia: l’olio d’oliva, le arance, i datteri e anche il grano, sono preda di investimenti che rendono parecchio a questi capitali che non sono tunisini e che nel contempo distruggono le comunità locali. Le distruggono sia dal punto di vista del prodotto, ossia di come il prodotto è legato all’interno di una dieta e quindi di una cultura del cibo che in continuità si è data nei secoli, ma anche da punto di vista delle possibilità per il futuro. Quello che avviene è che giovani persone, principalmente uomini, sono costrette ad abbandonare le campagne perché non intravedono più un futuro e quindi decidono di cercarlo in Europa, migrando. Questo è un fenomeno complesso che ha molte sfaccettature e che è diversificato per tipologie di produzioni, e che però ha un impatto fondamentale nella lettura del quadro contemporaneo e di cosa sta succedendo. 

Prima ho parlato del Nord Africa e del Medio Oriente, ma il fenomeno del land grabbing avviene in quasi tutto il Sud globale, dall’America Latina, all’Africa (Mozambico, Etiopia ecc.) e in moltissimi altri paesi, come anche in Asia. Leggere con queste lenti il presente dà una consapevolezza maggiore sia di come il colonialismo e i colonialismi siano ancora presenti nella cultura e nelle culture del nord globale, nonché di come fenomeni come le migrazioni vengano spesso ridotti ed essenzializzati a qualcosa che invece ha una matrice molto più ampia e che va ricostruita ed anche interpretata in un’altra maniera.

Quali sono in base alle tue ricerche e studi i paesi maggiormente investiti da questi processi di estrattivismo legati alle monoculture e quali sono gli attori responsabili?

Per una questione di interesse rispetto ai colonialismi la mia attenzione è posta su quello che succede nella parte settentrionale dell’Africa, in paesi come l’Egitto e la Tunisia, ma si può estendere questo discorso anche al Marocco e al Medio Oriente. Sicuramente anche il Sudan e tantissimi altri paesi come quelli subsahariani sono assolutamente coinvolti in questo processo che non riguarda solamente – ci tengo a ribadirlo – il colonialismo come elemento eterodiretto, ovvero come passaggio diretto dall’età degli imperi a qualcosa che riguarda il presente. 

In Africa orientale, nel Corno d’Africa, moltissime compagnie che fanno land grabbing sono cinesi, così anche nel Sud Sahara il ragionamento va letto secondo me non tirando solo un filo di continuità tra gli imperi e quindi le bandiere (Inghilterra, Francia, Italia, Olanda, Spagna, Portogallo ecc.) con gli ex possedimenti coloniali, ma comprendendo che quel tipo di modalità di appropriarsi di terre e di acque, riutilizzando la tecnica e la modalità narrativa dello sviluppo, della modernità e del fardello della civilizzazione, è qualcosa che è ben più trasversale; riguarda per esempio anche la Cina e l’India, oppure i paesi come gli Emirati Arabi, e moltissimi altri capitali che invece non hanno una allocazione fisica in un determinato paese, ma che funzionano proprio in quella maniera, o perlomeno quando giustificano azioni di acquisto ma anche di espropriazione, quindi di espulsione delle comunità dai luoghi natii e utilizzando una spiegazione di quel tipo, ovvero “stiamo dando strumenti per lo sviluppo”. 

Aggiungo ancora un altro elemento: in questa riflessione non si può dimenticare anche un’altra parte che spesso viene tralasciata, ovvero le responsabilità dei governi locali. Lasciare, o mettere in vendita dei territori oppure fare degli accordi, degli agreement con delle multinazionali con dei capitali esteri, vuol dire avere un pezzo di responsabilità su quel neocolonialismo ed estrattivismo e quindi anche su quello che accade dopo, cioè sulla riduzione in povertà di milioni di persone e quindi anche sulle migrazioni. Questo ragionamento deve essere fatto a 360° in modo tale da non essenzializzare l’estrattivismo e il neocolonialismo come qualcosa che ha un responsabile unico: al tempo stesso sono molteplici le soluzioni che devono andare necessariamente in direzione di ecologie politiche, ovvero di pensare modalità nuove attraverso cui le comunità globali, quindi non solamente locali, possano vivere in rapporto stretto con l’ambiente, con le risorse e con il sistema globale. 

Questa è una riflessione che non è facile da fare, perché ogni estrattivismo è locato e quindi ha una specificità propria, ma dall’altra parte bisogna tenere anche questo sguardo più aperto, perché sennò si rischia sempre di cadere nel rischio di cercare di dare una mano, nell’aiutare in modo quasi caritatevole queste popolazioni senza pensare ovviamente che anche quel modello di “aiuto allo sviluppo” è retaggio di un passato coloniale, o perlomeno che ha all’interno una dinamica di superiorità. Quindi io come bianco occidentale europeo, classe media, aiuto chi bianco non è e chi non è di classe media, e cerco di fare una sorta di carità che è già problematica di per sé e che è parte stessa del problema. 

Nella globalizzazione dei mercati, delle culture e dei capitali, come anche delle migrazioni, pensare invece ad una visione che non è lineare, che non è liscia, né uniformata e omologata, ma con delle rotture profonde che provocano pieghe, interruzioni, fintanto a momenti di conflitto, permette di creare alleanze. Lo snodo fondamentale è proprio questo: agire e supportare con solidarietà, ma anche comprendere e portare quelle che sono le istanze che vengono mosse da chi vive quei territori di confine e quei territori di frammentazione. Lì si possono creare nuovi modi per interpretare il futuro, cioè lì possono realmente applicarsi nuove ecologie politiche, nuove forme di ripensare il locale nel globale e viceversa.

Ci puoi infine citare alcuni esempi di comunità che lottando riescono a contrastare questi processi e quali sono a tuo avviso le peculiarità?

Rimanendo nel Nord Africa, sicuramente in Tunisia un elemento fondamentale è proprio quello di una continuità delle proteste che riportano in auge una critica alle monoculture e al land grabbing; in Marocco, dal 2016 in poi ci sono state molte proteste per l’estrattivismo; stessa cosa in Mozambico, ma direi che tutti i paesi dell’Africa sono attraversati da questo tipo di dissenso. 

L’elemento secondo me interessante che le unisce e che è un punto di connessione e di snodo, è che gran parte di queste proteste sono mosse da donne e questo forse fa crollare e rimette in discussione lo stereotipo – anche questo di provenienza coloniale – della donna non bianca soggiogata a un potere della bianchezza. 

Il ruolo della donna è fondamentale per articolare delle lotte che in molti casi possono avere degli sviluppi positivi.

Per esempio quello che è successo nei paesi che citavo prima, e che è ben presente nei territori curdi, è un modo di riportare in alto delle istanze che non sono solamente un posizionamento preciso della donna, ma sono invece di una intera comunità. Qui vedo delle connessioni interessanti con quello che sta succedendo in America Latina e del ruolo del femminismo in questi paesi. Ma anche con quello che sta succedendo di molto importante in altre parti del mondo, come in questi giorni in Iran.
L’Europa e il nord globale devono sicuramente guardare a questo pezzo di mondo e dotarsi di lenti per interpretare il presente e il futuro partendo dal passato e da una visione storica, decolonizzando la memoria incapsulata all’interno delle nostre culture.

Tratto da: