Nel distruggere la gabbia

Le rivolte al CPR di Torino sono un lampo di luce in un orizzonte sempre più cupo.

14 / 4 / 2023

Il CPR di Torino è stato chiuso, dopo 25 anni di “ininterrotta attività”. È stato chiuso dalla lotta delle persone recluse, dalla loro rabbia, dalla loro disperazione. Questo è un fatto politicamente fondamentale, che è passato forse in sordina nella narrazione mainstream sull’inagibilità della struttura di via Mazzarello 31. Un fatto che si inscrive e si rispecchia nella lunga storia di rivolte nelle prigioni per migranti in Italia, un fatto che va chiamato per nome: i detenuti hanno distrutto la loro gabbia, le hanno dato fuoco.

Nonostante la celere, nonostante le “terapie” di sedativi [1], nonostante i tentativi dell’istituzione totale CPR di annientare il corpo e la mente. Questo dimostra – se ce ne fosse bisogno – l’irriducibile forza di chi in catene decide di ribellarsi insieme allə altrə, di liberarsi. E riapre un orizzonte di possibilità, facendo capire – soprattutto a chi sta fuori da quelle mura – che sì, i CPR possono essere chiusi. Si possono aprire squarci in quelle mura che sembrano eterne, ce lo insegnano da dentro, con la lotta. Purtroppo però nemmeno questa è una storia a lieto fine, infatti solo pochi dei detenuti sono stati liberati con foglio di espulsione, mentre la maggior parte è stata trasferita nei CPR di Trapani, Potenza e Macomer, oppure deportata.

«Le persone che erano trattenute – ci spiega l’avv. Gianluca Vitale – e anche alcune di quelle che hanno dato vita alla rivolta, non sono state purtroppo liberate, ma semplicemente trasferite in altri centri, con modalità che ci auguriamo vengano approfondite anche dalla magistratura, perché ci sono stati racconti di modalità di trasferimento assolutamente inidonee, con pestaggi e condizioni tali che costituiscono quantomeno dei trattamenti inumani e degradanti».

Le rivolte di febbraio

Prima delle rivolte i detenuti erano 121. Sabato 4 febbraio scoppia la prima dura protesta, che coinvolge tre aree della struttura e viene duramente repressa dalla polizia in assetto antisommossa. Tra incendi e gas lacrimogeni, alcune persone vengono portate in ospedale, altre sono lasciate a terra. Il giorno seguente, domenica 5, mentre all’esterno del CPR si ritrovano diversə solidalə in un presidio, all’interno continuano gli incendi e le grida. Il fumo sopra le mura è il segno che la protesta continua. Dopo queste due giornate, solo due aree rimangono agibili, e nelle ore successive molte persone vengono caricate sui pullman senza ricevere alcuna informazione e trasferite in altri CPR, in particolare verso la prigione punitiva di Macomer. Altre vengono deportate in Marocco, Tunisia ed Egitto, non prima di essere sedate. Il 20 febbraio, le poche persone rimaste – circa una quarantina – insorgono ancora: l’episodio scatenante è il pestaggio di un ragazzo, immobilizzato con il ginocchio sul collo da un poliziotto. All’ennesimo sopruso, il CPR viene nuovamente dato alle fiamme. L’area verde viene resa inagibile e rimane soltanto l’area blu, in cui le persone sono ammassate senza cibo, acqua né la possibilità di lavarsi per un paio di giorni, prima della seconda ondata di deportazioni, trasferimenti e qualche rilascio con foglio di espulsione. Infine, il 2 marzo sono state trasferite le ultime 7 persone rimaste, di cui 6 erano entrate in sciopero della fame. Tutte le aree sono state interessate da incendi e a quel punto il ministero non ha potuto che prendere atto della inutilizzabilità di quel luogo. Da circa un mese dunque la prigione per migranti di Torino, dopo 25 anni, è finalmente vuota. 

Il futuro della struttura di via Mazzarello 31

Sul destino del CPR si sono rincorse voci diverse e discordanti in queste settimane. Il 13 marzo il Consiglio comunale di Torino ha approvato un ordine del giorno che chiede la chiusura definitiva del centro di detenzione e “che le risorse liberate da questa scelta siano impiegate a tutela della popolazione cittadina e a favore di una gestione delle politiche migratorie attenta ai diritti delle persone e volta a una piena integrazione“. I promotori del documento hanno sottolineato anche l’inefficacia del centro nel raggiungere gli “obiettivi normativi” che si propone, dato che circa il 25% dei detenuti è effettivamente rimpatriato. L’assessore alle politiche sociali l’ha definito “un investimento a perdere”, considerati i costi di mantenimento e gestione, stimati attorno ai 10 milioni di euro l’anno, e quelli aggiuntivi di sistemazione che raggiungeranno almeno il milione di euro.

Non ne fa una questione di “efficacia” l’avv. Vitale: «Non può e non deve riaprire uno dei buchi neri della città di Torino, che per troppi anni ha continuato ad inghiottire vite di migranti, a consentire il rimpatrio di persone che non avrebbero dovuto essere rimpatriateA costringerle in condizione di cattività solamente perché irregolari sul territorio nazionale. Una di queste, lo ricordiamo tutti, era Moussa Baldé che ha ritenuto che quelle condizioni fossero talmente intollerabili da togliersi la vita. Credo che adesso la lotta debba essere continuata perché questo luogo non riapra. Resta assolutamente inidoneo per come è stato concepito, sia nella sua concezione giuridica, perché la detenzione amministrativa non dovrebbe esistere in Italia, a mio parere assolutamente incoerente con il dettato costituzionale, sia perché la struttura, così per come è stata ideata, è una gabbia, ossia una struttura che non sarebbe idonea al contenimento di animali e infatti gli zoo sono stati ormai chiusi in tutta Italia, ma continuano ad esistere solo per le persone migranti».

Nel frattempo, all’ente gestore è stato promesso un indennizzo per i beni già acquistati prima della chiusura, mentre è stato sospeso il contratto di affidamento, sebbene stesse giungendo alla scadenza annuale. Come noto, si tratta della multinazionale svizzera della detenzione ORS, ex gestore del CPR di Macomer, ora affidataria di quello di Ponte Galeria (Roma), oltre che di diversi CAS. Nonostante l’apparente fretta di mettere a bando la ristrutturazione e riaprire da parte della Prefettura, c’è anche chi dice si stia valutando la costruzione di una nuova struttura detentiva fuori città, per lasciare spazio a nuovi progetti di riqualificazione urbana nell’area tra via Mazzarello e corso Brunelleschi. 

La rinnovata centralità dei CPR nelle politiche italiane ed europee

Immaginare la chiusura definitiva del centro di Torino è probabilmente eccessivamente ottimistico alla luce delle politiche migratorie italiane ed europee. Infatti, nella conferenza stampa del 9 marzo, tenuta dopo il Consiglio dei Ministri convocato d’urgenza a Cutro, il vice-premier Matteo Salvini ha espresso la volontà del governo di dotarsi di “più centri per le espulsioni”, affermando che “tutte le regioni italiane dovranno dotarsi di almeno un centro per i rimpatri”. Un progetto che viene da lontano, visto che nel 2017 l’allora ministro Marco Minniti, istituendo i CPR, dichiarava esattamente lo stesso, precisando che sarebbero stati una cosa “totalmente diversa” rispetto ai vecchi CIE e che sarebbero sorti “fuori dalle città, negli hub di comunicazione stradale”. Proprio per facilitare l’apertura di nuovi centri, nel nuovo decreto “Immigrazione” di Cutro è prevista la “facoltà, in sede di individuazione, acquisizione o ampliamento dei centri di permanenza per i rimpatri (CPR), di derogare al codice dei contratti pubblici, consentendo una maggiore speditezza nello svolgimento delle procedure”. Un “libera-tutti” per incoraggiare la costruzione dei nuovi CPR fuori dagli standard normativi. Inoltre, nella finanziaria 2023, prima legge di bilancio del nuovo governo, sono stati previsti 42,5 milioni di euro nei prossimi tre anni per “l’ampliamento della rete dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr)”, di cui 36,5 milioni destinati alla “costruzione, acquisizione, completamento, adeguamento e ristrutturazione di immobili”, e i restanti per la gestione dei centri. L’aumento rispetto alla precedente finanziaria è di 5,39 milioni per il 2023 e di 14,39 milioni per il 2024.

Da non sottovalutare, poi, sottolinea l’avv. Gianluca Vitale sono le nuove modalità di trattenimento che possono prefigurarsi all’orizzonte: «Sono detenzioni in luoghi considerati idonei che ormai la normativa dal decreto Salvini in poi consente, luoghi per certi versi ancora più oscuri di quello che sono i CPR e dei quali non si conosce neanche la collocazione e le modalità di trattenimento e tutto quello che ne consegue».

La direzione intrapresa dall’esecutivo è evidente, ma non va dimenticato un ultimo livello di analisi di politiche, spesso negletto: quello europeo. L’obiettivo primario della Commissione in ambito migratorio è di aumentare drasticamente il numero dei rimpatri, come ha sottolineato più volte la commissaria Ylva Johansson. Giusto qualche giorno fa, ha dichiarato che “per proteggere il diritto d’asilo dobbiamo dimostrare che stiamo gestendo in modo appropriato coloro che non hanno i requisiti per ottenere la protezione”, lamentandosi che solo il 21% degli irregolari in UE vengono deportati e sollecitando i paesi membri a deportare di più. Questo si traduce inevitabilmente in più centri di detenzione pre-rimpatrio.

Del resto, i “returns” sono un pilastro del Patto Europeo sulla Migrazione e l’Asilo, nonché l’orizzonte di sviluppo di Frontex. L’agenzia di guardia confini infatti si propone di assistere gli stati membri nelle procedure di ritorno, come successo settimana scorsa, con un volo congiunto europeo targato Frontex che è atterrato in Bangladesh con 68 persone. L’obiettivo della Commissione è quello di stringere accordi con i paesi terzi – il vero ostacolo, anche economico, all’effettività dei rimpatri – direttamente a livello comunitario, organizzando l’operatività delle procedure attraverso Frontex. 

L’orizzonte è cupo, ma le rivolte di Torino sono un lampo di luce. Nel silenzio, un incendio di disperazione e rabbia, uno squarcio di vita, “nel distruggere la gabbia”.


[1] Nel numero di aprile di Altreconomia un’inchiesta dei giornalisti Luca Rondi e Lorenzo Figoni conferma, ancora una volta, che le persone trattenute vengono “tenute buone” tramite un uso dei medicinali arbitrario, eccessivo e non focalizzato sulla presa in carico. Dall’apertura nel luglio 1998 del primo CPT, il Serraino Vulpitta di Trapani (leggi il dossier), è una storia che si ripete, diversi infatti i report e i servizi giornalisti che denunciano questi gravi abusi.

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