Morire di carcere a Padova

Terzo caso di suicidio al Due Palazzi dall’inizio dell’anno

2 / 7 / 2010

Santino Mantice, 24 anni, tossicodipendente, si è impiccato l’altra notte nell’infermeria della Casa di Reclusione di Padova, nella quale da poco gli era stato revocato il servizio di osservazione perché, dopo numerosi episodi di autolesionismo, era a rischio suicidio. Siciliano di origine, trapiantato a Milano, aveva iniziato a consumare stupefacenti all’età di dodici anni, entrando molto presto nel circuito dei piccoli reati, commessi in ragione del consumo, e delle carcerazioni relative.

Anche per Santino, come per tutti, l’unica risposta è stata il carcere. Padre di un bambino di tre anni che la sua compagna non gli faceva vedere perché recluso, il suo malessere era stato trattato prima con il ricovero all’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia e poi con massicce dosi di psicofarmaci alla Reclusione di Padova, 820 detenuti per una capienza di 350 posti. Il male di vivere privato della libertà lo ha schiacciato a soli tre mesi dalla scarcerazione, facendo salire a 35 il numero dei detenuti suicidi nelle carceri del nostro paese dall’inizio dell’anno.

L’autorità giudiziaria che si occupa del caso si è affrettata a dichiarare che non c’è relazione con i problemi si sovraffollamento, anche se alla Reclusione i detenuti sono molto più del doppio della capienza (ma nel vicino Giudiziario la situazione è anche più drammatica, con un esubero che ormai sfiora il triplo dei posti previsti). La stessa autorità dovrebbe invece interrogarsi sulla necessità del carcere per soggetti come Santino, come Stefano Cucchi, morto per il possesso di pochi grammi di marijuana, come migliaia di altri giovani destinati al carcere in ragione della legge Fini-Giovanardi, che in controtendenza a qualsiasi determinazione scientifica equipara il consumo di ogni tipo di droga a un’unica fattispecie di nocività e di sanzionabilità penale.

La notte prima che Santino ponesse in essere il suo gesto un corteo di un migliaio di persone si era mosso dall’area dello Sherwood Festival per portare la propria solidarietà ai reclusi delle due carceri padovane. Per “Illuminare la realtà del carcere”, come recitava lo striscione di apertura. La tragedia che si è consumata poche ore dopo è la conferma di quanto da tempo andiamo sostenendo: in carcere si muore per le politiche di carcerazione che fanno dei flussi migratori e della circolazione delle sostanze stupefacenti due meccanismi di privazione della libertà tanto iniqui quanto perversi, esercitati sulla pelle dei forestieri più poveri e dei soggetti socialmente più deboli. Mentre salvacondotti giudiziari di ogni genere vengono ogni giorno approntati per proteggere dalla giustizia penale gli uomini politici di potere e le varie cricche del malaffare.

Ancora una volta siamo perciò a chiedere con forza la depenalizzazione dell’uso e della circolazione delle sostanze, per l’autoproduzione legalizzata e l’autogestione consapevole e responsabile. L’abolizione del reato di clandestinità e di tutti i meccanismi di carcerazione legati all’essere in posizione irregolare rispetto al permesso di soggiorno. La piena attuazione dei provvedimenti di alternativa alla custodia in carcere. La messa in mora di un “piano carcere” che punta solo alla realizzazione di nuovi luoghi di detenzione, anche se numerose sono le carceri già ultimate, ma inservibili per mancanza di personale. La definizione di un immediato provvedimento di amnistia e indulto che alleggerisca il sovraffollamento insostenibile dell’intero sistema penitenziario. L’istituzione della figura del garante dei diritti dei detenuti per la città di Padova.

Di carcere non si può e non si deve morire.

Rete ScarceraMenti Padova