Monfalcone - Uniti contro la crisi - Verso la manifestazione del 16 ottobre.. e oltre

Incontro Pubblico @ Monfalcone, 9 Ottobre, 14.30,

7 / 10 / 2010

[leggi l'appello "Uniti Contro la Crisi" - verso la manifestazione del 16 ottobre]

Siamo lavoratori precari nel mondo definibile genericamente "del sociale e della cultura". Più nel dettaglio, lavoriamo con contratti di collaborazione e di lavoro a progetto, siamo lavoratori para-autonomi o i mitologici "soci-lavoratori" del lavoro cooperativo. Siamo anche piccoli padroni di noi stessi, lavoriamo con partita Iva o ritenuta d'acconto. A tutti gli effetti siamo padroni dei nostri mezzi di produzione, messi a lavoro nelle varie forme dell'appalto, del concorso, del bando di gara. Nella nostra giornata lavorativa prestiamo tutto il nostro tempo, la nostra passione, il nostro sapere, in definitiva la nostra vita, a quegli enti e a quelle istituzioni, che scaricano sul cosiddetto privato sociale quei lavori, immateriali e di relazione, tanto necessari quanto indispensabili, che l'Ente pubblico non è più in grado di svolgere, ma di cui deve garantire la presenza proprio per la sua stessa ragion d'essere.

Riteniamo quindi giusto definirci come lavoratori indispensabili alla società ed in particolare al territorio in cui viviamo e lavoriamo. Non solo per quanto riguarda l'ambito dei servizi essenziali alle persone: siamo contemporaneamente attori e strumenti di quello "Stato Sociale" in via di possibile ridefinizione e costantemente aggredito dal "mercato" che necessita sempre più di mettere a servizio del profitto anche l'ambito dei bisogni e dei "servizi". Ci sentiamo indispensabili anche perché costituiamo materialmente quella rete di garanzie sociali minime che le trasformazioni del mercato del lavoro e degli ambiti di produzione utilizzano come parafulmine o valvola di sfogo all'interno della crisi per la miriade di "danni collaterali" che la precarietà, l'assenza di forme di garanzie sociali e l'esclusione dagli ambiti di produzione scaricano sul territorio e sulla società.
Riteniamo insomma di essere quelle figure lavorative che oggi, in questo tipo di economia, più di chiunque altro contribuiscono alla creazione di ricchezza e di profitto, alla crescita di ricchezza diffusa o di produttività calcolata in termini di PIL. Eppure viviamo l'estrema contraddizione di essere fondamentali e di venire descritti come nullafacenti, eterni giovani che non vogliono ancora trovare un vero lavoro come invece hanno fatto i nonni e i padri. Tale contraddizione diviene insopportabile ancor di più in una città e in un territorio che ancora oggi si definiscono "operai" e che, nelle parole delle forze politiche classiche, della sinistra e non solo, ritiene che l'unica risposta possibile alla crisi sia il rilancio di una generica “politica industriale”.
Una crisi che, quindi, è prima di tutto identitaria, nella difficoltà di esprimere un nuovo potenziale collettivo, una possibile fuoriuscita dalla crisi sociale, economica e culturale nell'ottica di un cambio radicale dei concetti di lavoro, cittadinanza, economia e collettività.

Non vi è possibilità alcuna, e per fortuna, verrebbe da dire, che dagli ambiti della politica istituzionale e dei partiti nasca un sogno, una suggestione o un desiderio di riforma radicale dell'esistente.

Aspettare una nuova svolta nella politica industriale significa proprio questo: assenza completa di immaginario se non nei termini ridicoli della nostalgia per un passato di cui nessuno sente la mancanza, arrivando addirittura a sperare che il "mercato" coincida totalmente e completamente con lo Stato, nell'illusione che esso possa risolvere questa crisi che egli stesso ha tenacemente voluto, pianificato e strutturato.

Sarebbe ridicolo, se non fosse che si parla di noi, del nostro territorio, della nostra città, della nostra vita.
Per questo decidiamo di organizzarci, sappiamo che aspettare oggi una risposta dai piani alti della politica, rappresenta il suicidio.

Le situazioni drammatiche in cui versano gli operai sono esemplificative del futuro che ci attende. Lavoratori radicalmente diversi da noi, classiche figure del mercato del lavoro di questi territori che intorno a loro hanno costruito quella identità collettiva che richiamavamo sopra, identità gloriosa per lunghi tratti, sempre più marginale, addomesticata, residuale e oggi considerata addirittura parassitaria.
Non ci è mai interessato essere metalmeccanici o operai classici. Ad essere sinceri, ci siamo rifiutati caparbiamente di esserlo. In ogni caso, comprendiamo bene come la crisi occupazionale delle grosse e medie aziende operaie non è un dramma solo per chi la vive in maniera diretta con la cassa integrazione o con la messa in mobilità quando non addirittura col licenziamento. Dal nostro ambito di lavoro vediamo costantemente come la crisi delle aziende significhi drastico ridimensionamento del reddito, aumento dell'esclusione sociale, aumento degli affitti o dei mutui e, quindi, di sfratti e pignoramenti, aumento della diffusione delle dipendenze sia legali che illegali, lavoro nero, sfruttamento, razzismo e frustrazione. La crisi produce emergenze sociali continue a cui né il mercato né la politica sono in grado di dare risposte. Al contrario, emergenze sociali così stratificate e persistenti tracimano dall'emergenza sociale e sconfinano nell'emergenza penale, come impariamo da chi di noi lavora nei servizi sociali di prossimità o nel volontariato carcerario. Emergenza sicurezza, emergenza carceri, emergenza immigrazione e centri di detenzione sono l'altra faccia della stessa medaglia. La crisi svuota le fabbriche e contemporaneamente riempie le carceri .
A questo scenario riteniamo doveroso opporci, prima di tutto come liberi cittadini ma anche come rete organizzata degli operatori sociali e culturali, perché vogliamo essere uniti contro la crisi ma anche perché vogliamo vivere e non sopravvivere dentro una crisi che sappiamo essere non solo strutturale, ma molto più radicale di quanto possa dimostrare la mera conta delle ore di cassa integrazione. Non vi è una fine o un ritorno al passato, non vi è mediazione possibile dentro questa crisi, non ci sono scappatoie o soluzioni individuali, di "categoria" né tanto meno aziendali: la crisi colpisce globalmente il territorio, i suoi abitanti, la loro identità e le loro relazioni sociali.
Vediamo nell'assemblea auto-convocata del 9 ottobre a Monfalcone la possibilità di iniziare un nuovo percorso di discussione e organizzazione. Un nuova fase costituente capace di costruire un ambito politico dove studenti, operai in cassa integrazione, migranti, operatori della cultura e del sociale, senza casa e tanti altri possano riconoscersi principalmente come vittime della stessa crisi ma anche come potenziali attori di un nuovo inizio.
Chiediamo a tutti di partecipare all'assemblea di Monfalcone assumendo l'appello "Uniti contro la crisi" lanciato a livello nazionale come stimolo alla riflessione.
Chiediamo di intervenire con suggestioni, idee e proposte sia in forma organizzata che individuale, non solo per rivendicare i propri bisogni e chiedere solidarietà alle varie vertenze già in essere, ma bensì nel tentativo di allargare lo sguardo e il ragionamento aldilà delle lotte e vertenze proprie per immaginare una possibile ricomposizione di un tessuto sociale e lavorativo sempre più frazionato e diviso sulle grandi problematiche che riguardano non solo una categoria, non solo un azienda ma tutta il nostro territorio e la vita di tutti.


Sabato 9 ottobre, 14.30

Sala Convegni, Scuola di Musica Vivaldi

via G. Galilei 93/A, Monfalcone (Gorizia)

Introduce
Cristian Massimo

partecipano

Giorgio Cremaschi, Segreteria Nazionale FIOM

Luca Tornatore, Ass. Ya Basta! Italia