[leggi l'appello "Uniti Contro la Crisi" - verso la manifestazione del 16 ottobre]
Siamo lavoratori precari nel mondo definibile genericamente "del sociale e della cultura". Più nel dettaglio, lavoriamo con contratti di collaborazione e di lavoro a progetto, siamo lavoratori para-autonomi o i mitologici "soci-lavoratori" del lavoro cooperativo. Siamo anche piccoli padroni di noi stessi, lavoriamo con partita Iva o ritenuta d'acconto. A tutti gli effetti siamo padroni dei nostri mezzi di produzione, messi a lavoro nelle varie forme dell'appalto, del concorso, del bando di gara. Nella nostra giornata lavorativa prestiamo tutto il nostro tempo, la nostra passione, il nostro sapere, in definitiva la nostra vita, a quegli enti e a quelle istituzioni, che scaricano sul cosiddetto privato sociale quei lavori, immateriali e di relazione, tanto necessari quanto indispensabili, che l'Ente pubblico non è più in grado di svolgere, ma di cui deve garantire la presenza proprio per la sua stessa ragion d'essere.
Riteniamo quindi giusto definirci come lavoratori indispensabili
alla società ed in particolare al territorio in cui viviamo e
lavoriamo. Non solo per quanto riguarda l'ambito dei servizi
essenziali alle persone: siamo contemporaneamente attori e strumenti
di quello "Stato Sociale" in via di possibile ridefinizione
e costantemente aggredito dal "mercato" che necessita
sempre più di mettere a servizio del profitto anche l'ambito dei
bisogni e dei "servizi". Ci sentiamo indispensabili anche
perché costituiamo materialmente quella rete di garanzie sociali
minime che le trasformazioni del mercato del lavoro e degli ambiti di
produzione utilizzano come parafulmine o valvola di sfogo all'interno
della crisi per la miriade di "danni collaterali" che la
precarietà, l'assenza di forme di garanzie sociali e l'esclusione
dagli ambiti di produzione scaricano sul territorio e sulla
società.
Riteniamo insomma di essere quelle figure lavorative che
oggi, in questo tipo di economia, più di chiunque altro
contribuiscono alla creazione di ricchezza e di profitto, alla
crescita di ricchezza diffusa o di produttività calcolata in termini
di PIL. Eppure viviamo l'estrema contraddizione di essere
fondamentali e di venire descritti come nullafacenti, eterni giovani
che non vogliono ancora trovare un vero lavoro come invece hanno
fatto i nonni e i padri. Tale contraddizione diviene insopportabile
ancor di più in una città e in un territorio che ancora oggi si
definiscono "operai" e che, nelle parole delle forze
politiche classiche, della sinistra e non solo, ritiene che l'unica
risposta possibile alla crisi sia il rilancio di una generica
“politica industriale”.
Una crisi che, quindi, è prima di
tutto identitaria, nella difficoltà di esprimere un nuovo potenziale
collettivo, una possibile fuoriuscita dalla crisi sociale, economica
e culturale nell'ottica di un cambio radicale dei concetti di
lavoro, cittadinanza, economia e collettività.
Non vi è possibilità alcuna, e per fortuna, verrebbe da dire, che dagli ambiti della politica istituzionale e dei partiti nasca un sogno, una suggestione o un desiderio di riforma radicale dell'esistente.
Aspettare una nuova svolta nella politica industriale significa proprio questo: assenza completa di immaginario se non nei termini ridicoli della nostalgia per un passato di cui nessuno sente la mancanza, arrivando addirittura a sperare che il "mercato" coincida totalmente e completamente con lo Stato, nell'illusione che esso possa risolvere questa crisi che egli stesso ha tenacemente voluto, pianificato e strutturato.
Sarebbe ridicolo, se non fosse che si parla di noi, del nostro
territorio, della nostra città, della nostra vita.
Per questo
decidiamo di organizzarci, sappiamo che aspettare oggi una risposta
dai piani alti della politica, rappresenta il suicidio.
Le situazioni drammatiche in cui versano gli operai sono
esemplificative del futuro che ci attende. Lavoratori radicalmente
diversi da noi, classiche figure del mercato del lavoro di questi
territori che intorno a loro hanno costruito quella identità
collettiva che richiamavamo sopra, identità gloriosa per lunghi
tratti, sempre più marginale, addomesticata, residuale e oggi
considerata addirittura parassitaria.
Non ci è mai interessato
essere metalmeccanici o operai classici. Ad essere sinceri, ci siamo
rifiutati caparbiamente di esserlo. In ogni caso, comprendiamo bene
come la crisi occupazionale delle grosse e medie aziende operaie non
è un dramma solo per chi la vive in maniera diretta con la cassa
integrazione o con la messa in mobilità quando non addirittura col
licenziamento. Dal nostro ambito di lavoro vediamo costantemente come
la crisi delle aziende significhi drastico ridimensionamento del
reddito, aumento dell'esclusione sociale, aumento degli affitti o dei
mutui e, quindi, di sfratti e pignoramenti, aumento della diffusione
delle dipendenze sia legali che illegali, lavoro nero, sfruttamento,
razzismo e frustrazione. La crisi produce emergenze sociali continue
a cui né il mercato né la politica sono in grado di dare
risposte. Al contrario, emergenze sociali così stratificate e
persistenti tracimano dall'emergenza sociale e sconfinano
nell'emergenza penale, come impariamo da chi di noi lavora nei
servizi sociali di prossimità o nel volontariato carcerario.
Emergenza sicurezza, emergenza carceri, emergenza immigrazione e
centri di detenzione sono l'altra faccia della stessa medaglia. La
crisi svuota le fabbriche e contemporaneamente riempie le carceri .
A
questo scenario riteniamo doveroso opporci, prima di tutto come
liberi cittadini ma anche come rete organizzata degli operatori
sociali e culturali, perché vogliamo essere uniti contro la crisi ma
anche perché vogliamo vivere e non sopravvivere dentro una crisi che
sappiamo essere non solo strutturale, ma molto più radicale di
quanto possa dimostrare la mera conta delle ore di cassa
integrazione. Non vi è una fine o un ritorno al passato, non vi
è mediazione possibile dentro questa crisi, non ci sono scappatoie o
soluzioni individuali, di "categoria" né tanto meno
aziendali: la crisi colpisce globalmente il territorio, i suoi
abitanti, la loro identità e le loro relazioni sociali.
Vediamo
nell'assemblea auto-convocata del 9 ottobre a Monfalcone la
possibilità di iniziare un nuovo percorso di discussione e
organizzazione. Un nuova fase costituente capace di costruire un
ambito politico dove studenti, operai in cassa integrazione,
migranti, operatori della cultura e del sociale, senza casa e tanti
altri possano riconoscersi principalmente come vittime della stessa
crisi ma anche come potenziali attori di un nuovo
inizio.
Chiediamo a tutti di partecipare all'assemblea di
Monfalcone assumendo l'appello "Uniti contro la crisi"
lanciato a livello nazionale come stimolo alla riflessione.
Chiediamo
di intervenire con suggestioni, idee e proposte sia in forma
organizzata che individuale, non solo per rivendicare i propri
bisogni e chiedere solidarietà alle varie vertenze già in essere,
ma bensì nel tentativo di allargare lo sguardo e il ragionamento
aldilà delle lotte e vertenze proprie per immaginare una
possibile ricomposizione di un tessuto sociale e lavorativo sempre
più frazionato e diviso sulle grandi problematiche che riguardano
non solo una categoria, non solo un azienda ma tutta il nostro
territorio e la vita di tutti.
Sabato 9 ottobre, 14.30
Sala Convegni, Scuola di Musica Vivaldi
via G. Galilei 93/A, Monfalcone (Gorizia)
Introduce
Cristian Massimo
partecipano
Giorgio Cremaschi, Segreteria Nazionale FIOM
Luca Tornatore, Ass. Ya Basta! Italia