Manif sauvage: gli studenti non vogliono pagare la crisi

17 / 10 / 2008

È una nuova composizione soggettiva quella che sta emergendo dallo straordinario movimento che, in questi giorni, sta finalmente incendiando le università italiane.
Il casus belli è la legge 133 di Gelmini e Tremonti, con i tagli – a questo punto definitivi – all’istruzione superiore, la drastica riduzione del fondo di finanziamento ordinario, il blocco del turnover, la trasformazione delle università in fondazioni private.
L’obiettivo sono complessivamente le politiche che, da destra a sinistra, non sembrano avere altra strategia se non la dismissione del sistema universitario.
Una composizione nuova, dicevamo: assolutamente pragmatica, compiutamente post-ideologica, interamente socializzata nel tessuto produttivo metropolitano, senza alcuna lacrima da versare per le bandiere, colorate o belle che siano. Sa che i confini tra formazione e lavoro sono saltati, nel segno della precarietà e della devalorizzazione. Non è un caso, allora, che in queste settimane nelle affollatissime assemblee di facoltà e di ateneo, a Roma e nelle altre città, tutti vogliano prendere parola per porre al centro la questione della dequalificazione dei saperi e dei titoli di studio, per rivendicare denaro, per rovesciare l’assenza di futuro in pienezza della decisione sul proprio presente. È una composizione irrappresentabile, che sta facendo dell’ingovernabilità una forma di espressione di piazza e di conflitto. Si muove veloce e in modo imprevedibile, non è mai dove i poliziotti e il sistema politico si aspettano di trovarla, proprio come è successo nella rivolta del 2006 in Francia contro il Cpe.
Non mancano certo i problemi, soprattutto a osservare la situazione con lenti poco abituate: ma i tratti difficoltosi della non politicizzazione dei nuovi studenti sono continuamente reversibili nella radicalità delle pratiche. Così, per ora, l’apparente mancanza di un discorso diffuso sull’occupazione degli atenei non si risolve nell’immobilismo, ma al contrario produce la necessità di invadere la metropoli per renderla ingestibile.
Questa è anche, o forse soprattutto, una composizione che vuole vincere, proprio come hanno fatto gli studenti contro il Cpe. Per farlo, ha scelto una temporalità autonoma e indipendente, non subalterna né ai tempi della politica (la legge, del resto, è già passata e va fatta ritirare), né all’immagine lineare delle forme di crescita e maturazione dei movimenti. Per vincere, quindi, bisogna rendere permanente l’ingovernabilità, scegliere di volta in volta i terreni su cui costruire forza, durare un minuto di più dell’avversario.
Questo è ciò che questo movimento ci sta insegnando: tra le macerie dell’università pubblica c’è la vita. La vita di una composizione soggettiva che non ha alcuna intenzione di sobbarcarsi i costi della crisi, finanziaria e dell’università, perché il fallimento è quello di chi le macerie le ha create o, in mezzo ad esse, tenta di conservare pavidamente i propri residuali privilegi.
Tutto ciò è condensato in quello slogan che risuona continuamente nelle piazze, “noi la crisi non la paghiamo”, che è già programma politico e di lotta. È un movimento che combatte il mercato senza alcuna nostalgia dello Stato, consapevole che il pubblico non va difeso, ma costruito. Come ha iniziato a fare nelle esperienze di autoformazione e, a partire dal 2005, con l’’“autoriforma dell’università”.
I poliziotti con il fiato corto che, negli ultimi giorni, inseguivano lo sciame di studenti che bloccava i binari di Termini e assediava il ministero dell’istruzione, sono la miglior metafora di un sistema politico e di potere che, per quanto mostri i muscoli, non riesce a catturare la gioia della cooperazione sociale e del conflitto.
L’anomalia della situazione italiana non è Berlusconi, come le retoriche di sinistra da tempo raccontano.
L’anomalia si chiama movimento universitario.
Un’anomalia selvaggia, libera, imprendibile.

Vedi anche:
La linea spezzata del movimento degli studenti di Alberto De Nicola
L’Università dismessa. Intervista a Gigi Roggero
Se una pantera si mette in libertà di Francesco Raparelli