Macerata e l’egemonia culturale perduta

6 / 2 / 2018

La tentata strage di Macerata da parte del nazifascista Traini lascia ammutoliti e sgomenti.
Non è la prima volta che accade un fatto simile. Già sette anni fa a Firenze si era verificato un episodio quasi analogo e lungo la Penisola agguati e violenze nei confronti di migranti, studenti e lavoratori si susseguono e ripetono in modo sistematico.
Ma è evidente che l’aggressione armata di sabato, calata nel contesto attuale, segna un salto di qualità, anche dal punto di vista simbolico.

Un fascista dichiarato gira per una piccola città, la quale neanche negli anni Settanta aveva mai vissuto tensioni di questa portata, e cerca sistematicamente di uccidere persone di colore.
Macerata come una qualunque località del Missisipi o dell’Alabama.

In queste ore diversi commenti ed editoriali si interrogano sul perché siamo arrivati a questo punto. Tralasciamo quelli ipocriti delle maggiori testate che abitualmente fanno a gara per lanciare proclami e allarmismi contro i flussi migratori e si spellano le mani nei confronti dei provvedimenti dell’ineffabile ministro Minniti, altri commentatori invece hanno rammentato il processo di sdoganamento, culturale, oltre che politico, nei confronti dell’estrema destra.

E hanno ragione.

È bene ricordare che il primo artefice fuBettino Craxi con la presenza al funerale di Almirante, inizio di un clima rispettoso nei confronti del partito erede del periodo mussoliniano, il cui simbolo era la fiamma tricolore che risorgeva dalle ceneri della Repubblica di Salò. Si è poi proseguito con l’abbraccio di Berlusconi nei confronti di Fini e dei suoi accoliti, fino ai “ragazzi di Salò” diViolante, al buonismo di Veltroni, ai libri di Pansa, alle fiction televisive, ai “crimini dei partigiani”, alle menzogne su “Via Rasella”, tutto attraverso lo svuotamento dei principi costituzionali. L’elenco è lungo, purtroppo.

E sullo sfondo una società sempre più involuta, dove dilagavano individualismo, disgregazione, smantellamento della tutele. Una società, si sottolinea, “impreparata a sostenere il flusso migratorio” degli ultimi decenni.

Una società dove la centralità del profitto, del mercato, del capitalismo ormai senza più freni, iniziava ad imperversare.

Tutte cose vere e condivisibili. Ma… C’è un ma. C’è un aspetto della questione che andrebbe approfondito, analizzato, tenuto al centro del confronto. Un aspetto che, prima che politico-sociale, è essenzialmente – strutturalmente – antropologico e culturale. Se oggi il neofascismo è così spudoratamente agguerrito, arrivando addirittura a rivendicare dopo poche ore il raid terroristico di Macerata, è perché c’è un contesto che glielo consente.

E non è tanto quello politico-istituzionale, da tempo consolidato, basti pensare, per non andare troppo indietro negli anni, alla vergognosa gogna a cui sono state sottoposte questa estate le ONG che meritoriamente cercano di salvare le vite di chi emigra in condizioni drammatiche.

Il problema è che la xenofobia, il razzismo, o comunque l’insofferenza nei confronti di chi oggi condivide sempre più con noi la vita nelle nostre città, di chi bussa alle nostre porte in fuga da guerre, fame, mutamenti climatici, sono egemoni.

Negli anni Settanta, il neofascismo era ben presente nel nostro Paese. Il MSI era il quarto partito, dopo DC, PCI e PSI. Nelle elezioni del 1972 ottenne l’8,7%. Quattro anni dopo, nella tornata elettorale che sancì il duopolio tra democristiani e comunisti, calò di un paio di punti, ma mantenne la posizione.

La piccola differenza è che costituiva un’isola neofascista, circondata da un mare in cui l’antifascismo, nelle sue varie versioni, più tiepido o più intransigente che fosse, era tendenzialmente maggioritario. Lo era dal punto di vista politico, ma anche culturale e – verrebbe da dire – antropologico.
Oggi la netta impressione è che la situazione sia completamente rovesciata. Il diversificato mondo dei movimenti antirazzisti è l’isola, circondata da un sempre più minaccioso mare di indifferenza, paura, intolleranza, fino a vere e proprie manifestazioni diffuse di razzismo.

Basti pensare, tra i tanti esempi, alle ormai abituali proteste di residenti delle varie località quando si trovano di fronte alla possibilità di dover ospitare sul proprio territorio dei profughi. Anche se si tratta di piccoli nuclei, magari composti da donne e bambini, e non di diverse decine di persone, come a volte fanno le autorità preposte.

Pietà l’è morta… Quando a Fermo è stato ucciso Emmanuel, la città ha reagito con fastidio misto a rancore. Non ci sono state indignazione e rabbia davanti all’omicidio. La preoccupazione maggiore è stata il buon nome della città infangato dall’attenzione mediatica prima e dalla “calata dei manifestanti” poi. Angelo Ferracuti, fermano doc, ha documentato efficacemente gli umori dei sui concittadni, dicendo che Fermo “non era più la stessa di un tempo” e che si trattava di una comunità che gradualmente aveva perso la propria tradizione democratica e antifascista.

Domenica a Macerata, alla manifestazione convocata con un originale tam tam telefonico, in piazza c’erano poco più di cinquecento persone. Non poche arrivate da fuori. Il sindaco Pd non si è visto. Come del resto non risulta che le massime cariche dello Stato abbiano fatto visita ai feriti. La sensazione era di trovarsi di fronte agli stessi umori fermani.

Le discussioni nei bar e nei negozi sembrano simili ai commenti ascoltati a Fermo nelle ore successive all’uccisione di Emmanuel.
Fermo e Macerata sono la punta di un iceberg. Microcosmi che rappresentato la tendenza generale.
Oggi più che mai è quindi fondamentale ribadire con la presenza in piazza la intransigenza nei confronti di razzismo, xenofobia, fascismi vari, ogni volta si palesino.

È fondamentale rintuzzare le iniziative dei gruppi squadristi. Ma occorre avere coscienza che la vera e propria emergenza democratica e di convivenza civile che stiamo vivendo, ancora prima che politica e sociale, è appunto antropologica e culturale.

Scrive Guido Viale in “Slessico familiare”: “Dal razzismo nessuno è immune. Lo succhiamo come il latte materno. Lo assorbiamo come l’aria che respiriamo. Lo pratichiamo in forme inconsapevoli. Per liberarcene ci vuole attenzione alle parole che usiamo e agli atti che compiamo. Non essere razzisti non è uno stato “naturale”; è il frutto di una continua autoeducazione” e aggiungiamo noi educazione.

Da qui dobbiamo ripartire.