L'unità dell'essere divisi

23 / 1 / 2015

Quale unità? Quale risanamento economico? Le testate dei giornali di oggi sono roboanti, tra chi plaude al successo dell’avverarsi dell’Unione e chi rimane un po’ deluso rispetto alla restrizione della potenzialità che avrebbe avuto la scelta del quantitative easing targata Draghi.

Ieri pomeriggio è iniziata una svolta storica, sicuramente. Mai era stata adottata una misura che effettivamente avesse un respiro e una ricaduta comunitaria dal punto di vista monetario e finanziario, con un parziale superamento delle particolarità degli Stati-nazione. Eppure, la visione ottimista di un’Europa finalmente unita perché in grado di avviare processi e misure che valgono universalmente viene subito smentita dalle modalità di applicazione. Non soltanto non vi è che una piccola percentuale prevista di condivisione dei rischi in caso di default dei titoli di Stato acquisiti (20% andrebbero sulle spalle della BCE, mentre l’80% sulle banche centrali), ma viene evidenziata di nuovo il carattere totalitario della governance neoliberale.

L’iniziativa del board della BCE, che di qui fino ad almeno settembre 2016 immetterà 1140 miliardi di euro di liquidità nel mercato, può avere qualche boccone di traverso ai vari Weidmann e Merkel, in quanto potrebbe indurre al lassismo verso le “riforme strutturali”; ciò che, però, dobbiamo tenere a mente è che per Draghi questo è direttamente un modo per tenere assieme l’Eurozona sotto l’egida della dittatura delle sue direzioni politiche. Un’Europa coesa, dove l’austerità e un programma economico decisi nei palazzi di Francoforte e di Bruxelles possono prendere piedi in tutti i suoi confini. Un’Europa che, appunto, non accetta possibili divergenze, le rotture con il suo paradigma dominante: da qui la necessità dei parametri del QE che per adesso non prevedono l’inclusione della Grecia. L’apertura allo Stato ellenico dovrà essere valutata a seconda degli impegni di cui il nuovo governo venturo si farà carico. Insomma, un disciplinamento bello e buona che mette all’angolo, ancor prima delle elezioni, Syriza e la possibilità di avviare politiche di ristrutturazione del debito sovrano.

L’Europa unità è soltanto la piattaforma, più formale che reale, tramite cui perseverare nelle gerarchie tra potentati economici e le subordinazioni politiche all’interno del Continente; fatto confermato dalla frammentazione monetaria resa palese dall’assenza di solidarietà da parte della BCE in caso di rendimento negativo dei titoli di Stato.

A coloro i quali gridano alla svolta epocale, alla soluzione per l’arrivederci della recessione – da unire con una buona dose di precarizzazione e privatizzazioni -, va ricordato che l’aumento dell’inflazione non è sinonimo di consumo. La tendenza al risparmio e il calo dei consumi sono due elementi strutturali alla crisi, soprattutto se milioni di giovani e migranti continuano ad essere impiegati con contratti a tempo determinato o a progetto, con un salario netto all’ora da fame, senza un tipo di continuità di reddito previsto da un’assistenza sociale in alcuni dei Paesi dell’Unione (e, anche qui, possiamo vedere come l’unione sia sempre e soltanto inclusione differenziale al suo interno). Per non parlare, nella maggior parte dei Paesi europei, della tassazione adottata come misura sostitutiva che non moltiplica affatto il potere di acquisto delle cosiddette famiglie/consumatori. Per quanto il calo dei tassi di interesse e la svalutazione della moneta permette da un lato di aumentare i prestiti, dall’altro di essere competitivi sul mercato internazionale, si tratta pur sempre di conseguenze a breve termine, che possono provocare in un secondo momento un ulteriore indebitamento. Siamo così sicuri che la circolazione della moneta andrà, quindi, in tasca ai precari, disoccupati, impiegati dipendenti, piuttosto che nei grandi circuiti della finanza?

La fine dell’austerità, della rigidità del bilancio, sono molto in lontananza, così come quella di una nuova Europa che sia di fatto una comunità politica. L’Europa deve ritrovare le sue radici di solidarietà non nella suddivisione dei rischi, sull’acquisto di titoli, ma nel desiderio di ricercare giustizia sociale e diritti: in quel comune che non nasconde le differenze tra tutte le geografie territoriale e le pone su di un piano di uguaglianza fattiva. Ristrutturare il debito, rifiutare l’obbligo dovuto all’arcaico quanto presente dogma dell’inviolabilità del contratto, è una delle condizioni per ritrovare il comune denominatore di contrarietà alla governance europea e in favore di una gestione differente della distribuzione della ricchezza. Il problema sta nel riuscire a destrutturarlo nel suo essere rapporto sociale. Un compito che dobbiamo ritrovare in una primavera dei movimenti transnazionali.