L'oblio e la cura

Note sulle manifestazioni del marzo 2019

3 / 4 / 2019

Poco prima di essere obbligati a imbarcarsi, la maggior parte dei giovani centroafricani che veniva deportata attraverso l’atlantico sulle navi dei mercanti di schiavi passava attraverso una cerimonia. Wole Soyinka descrive cerimonie differenti, come bere da una fontana o passare sotto un albero sacro, ma ciò che le accomunava era l’aspettativa che si generasse una perdita della memoria, di tutto ciò che aveva un significato, delle esperienze vissute fino a quel momento. Si diventava schiavi anche dimenticando tutto ciò che aveva a che vedere con la vita precedente.

Ciò che il progetto politico tardo neoliberale sta cercando di realizzare è una sorta di cerimonia dell’oblio planetaria, in cui l’enorme massa di movimenti che si stanno battendo da almeno quattro decenni per la costruzione di un mondo diverso, dimentichi la propria storia per aderire ad un modello che risponde ancora una volta all’impostazione che il capitalismo ha dato all’esistenza. Lasciare tutto, abbandonare il campo, per generare sostenibilità, energie rinnovabili, sviluppo compatibile, in uno scenario in cui la produzione e il commercio del nostro mondo siano ancora la finalità di tutta l’azione umana. Mentre ciò che è emerso con forza nella giornata del 23 marzo a Roma è che dimenticare è impossibile, anche in uno scenario come quello italiano, abituato alla rimozione della memoria. Chi sta lottando da decenni contro un numero smisurato di forme di devastazione ambientale, per difendere la propria vita, non rinuncia a tutto. Soprattutto non rinuncia a ciò che ormai emerge stabilmente dal dibattito critico, cioè che l’intero pianeta è attraversato da conflitti sociali che ormai considerano come nodo centrale del loro discorso politico la difesa della biosfera, la sopravvivenza di varie comunità, l’opposizione ai processi di accumulazione. Tutte queste esperienze stanno diventando un luogo di incontro in cui si sovrappongono i conflitti di singoli territori e la produzione di una forte critica sociale, che inizia a porsi, in modo tangibile, il problema della ricerca di alternative di grande respiro e ha iniziato finalmente a produrre i propri scenari, anticipando in diversi casi alcuni mutamenti del capitalismo globale. La stessa potenzialità si è espressa sabato 30 nella manifestazione di Verona: il movimento femminista sta assumendo a livello planetario la configurazione di un’opposizione originale al tentativo di rilanciare un grande processo di accumulazione sul corpo delle donne. I due campi si dovranno fondere necessariamente, perché l’uno non può esistere senza l’altro, non si può superare la crisi ecologica senza superare la società patriarcale, non si può ripensare la nostra vita dentro le stesse gerarchie che hanno creato il mondo attuale.

Le molteplici esperienze italiane che si sono aggregate attorno al nodo della giustizia climatica e della critica al modello estrattivista neoliberale hanno già ampiamente messo in discussione tutta l’improbabile costruzione ideologica e astratta sullo sviluppo che ha guidato i rapporti tra gli esseri umani e il resto della biosfera negli ultimi secoli. Hanno messo in discussione proprio ciò che ha più bisogno dell’oblio, cioè l’ideologia che sostiene che la conversione del mondo in spazio di produzione e di vendita sia compatibile con la vita e che esistano forme di mediazione realizzabili tra le logiche del mercato e quelle della biosfera, tra lo sfruttamento e la libertà.

Si è trattato anche di una reazione forte, perché l’impossibilità di dimenticare emerge dal carattere evidentemente concreto, palpabile, sensibilmente materiale e ‘prossimo’ delle istanze a cui fanno riferimento tutte e tutti coloro che nella loro quotidianità hanno provato sulla propria pelle, sui propri corpi, la violenza con cui si esprimono le gerarchie di potere, la crisi ecologica, la devastazione di intere aree, la diffusione delle crisi sanitarie. Tutto è stato reso non-dimenticabile.

Le rivendicazioni locali assumono un respiro molto ampio, non solo perché si trovano nello stesso campo di altre su tutto il pianeta, non solo perché, soprattutto nel caso del movimento femminista, hanno assunto una configurazione globale, ma perché si indirizzano verso la critica generale al sistema.

La maggior parte delle lotte ambientali è nata affrontando le questioni proprie dell’economia neoliberale di stampo estrattivista, ma in molti casi è giunta a scontrarsi con gli elementi fondanti del capitalismo. In questo percorso, ci si può riconoscere come soggetti di una stessa dinamica che costruisce un campo comune, che produce qualcosa di nuovo. Soprattutto se quel campo comune riguarda la difesa della vita nella sua forma più pura.

L’articolazione della vita è infatti esattamente il contrario di ciò che viene generalmente rivendicato come sua difesa dalla visione più violenta e reazionaria che abbia prodotto la cultura occidentale. Il vivente non si adatta a schemi stabili e rigidi, ma anzi prospera in tutte le alternative possibili, cerca sempre di ampliare il proprio campo e si rigenera sviluppando forme di protezione e solidarietà. Proprio questo scarto rispetto ai modelli di sviluppo dominanti è un possibile terreno comune di lotta: l’eterodossia della vita contro la trasformazione in valore economico di tutto, contro l’asservimento della biosfera alla spinta uniformante e indifferente della valorizzazione.

Ciò che comincia finalmente a delinearsi è un modo di intendere e praticare la politica completamente nuovo, che sfugge al paradigma moderno e alle nostre esperienze. Le lotte ecologiste e femministe, che abbiamo visto convergere in piazza, dicono che bisogna ricordare e che bisogna farlo a partire dalla vitale concretezza delle tante singolarità del mondo. È un lavoro di tessitura in cui le maglie di una lotta comune si allargano inanellando istanze diverse che si riconoscono come resistenze ad un’unica logica annichilente, quella del capitale e del patriarcato. L’insieme di queste rivendicazioni assume inoltre un carattere tutt’altro che astratto: sono frutto di processi contingenti in cui si sviluppano alleanze strategiche, si attribuiscono responsabilità e si domandano soluzioni o progettualità a venire.

La riuscita delle manifestazioni nazionali sottolinea alcuni passaggi politici, alcuni mutamenti dei movimenti sociali, perché le due piazze parlavano la stessa lingua, così come la parlavano le tante esperienze presenti e perché le rivendicazioni si sono già fuse tra loro, iniziando probabilmente a realizzare un quadro generale da cui nasceranno altre esperienze, altre parole d’ordine e altre prospettive. Quel linguaggio comune potrà essere una base per costruire nuovi scenari e nuove pratiche. Il conflitto politico che questi movimenti cominciano a delineare rende necessario dunque confrontarsi continuamente con tutte le realtà che vogliono costruire un mutamento sociale, ma anche con le basi materiali del vivente: la cura ecologica è già subito inclusa.