Lo specchio deformante

Il populismo come specchio deformante sul bordo estremo della crisi della politica e della democrazia rappresentativa.

26 / 4 / 2018

Le manifestazioni del populismo si sono espresse storicamente nel contesto delle gravi crisi economiche del capitalismo, della democrazia rappresentativa, delle trasformazioni della forma Stato come apparato di comando delle classi dominanti. Le analisi di Marx sul Bonapartismo e di Gramsci sul Cesarismo sono illuminanti in questo senso. Per quanto legate a contesti storici differenti dalla situazione attuale, caratterizzata dalla globalizzazione e dal passaggio verso una post-democrazia autoritaria, ci sono delle costanti strutturali che si ripetono.

Bonapartismo e cesarismo

Intanto il “populismo” bonapartista - che Marx individuava nell’ascesa al potere di Napoleone III dopo un lungo periodo di conflitti sociali e di classe e di instabilità politica nel quadro delle forze parlamentari - obbediva alla necessità, da parte della borghesia, di stabilizzare e dare forma compiuta al suo potere di “classe generale”. Punta, dunque, all’unificazione di popolo e nazione attorno ai propri interessi, che sono principalmente lo sviluppo della grande industria e del capitale finanziario, superando la frammentazione, la conflittualità permanente, la continua disaggregazione e riaggregazione delle forze in campo. La ricetta è sempre la stessa: rafforzamento dell’esecutivo, assorbimento al suo interno del potere legislativo, costruzione di un consenso “popolare” inter-classista attorno alla figura di un uomo solo al comando.

Il Bonapartismo non è mera restaurazione, ma assorbe al suo interno, nell’idea di “impero liberale”, anche alcune espressioni del socialismo utopistico, in particolare Saint-Simon, e lo stesso Napoleone “il piccolo” scrive un breve saggio sulla «lotta alla povertà». Si tratta di un fenomeno complesso, di una controrivoluzione basata da una parte sulla feroce repressione dei movimenti sociali autonomi e della lotta di classe, dall’ altra dall’assunzione di alcune istanze e rivendicazioni delle classi subordinate. Insomma, già in questa acuta analisi marxiana si intravedono alcune costanti del fenomeno populista: esso appare in situazioni di crisi egemonica da parte delle classi dominanti ed è funzionale alla ridefinizione innovativa del loro dominio. Si dà vita alla costruzione di una una presunta e mistificante autonomia del politico, del potere statale al di sopra delle classi, come normalizzatore dell’ordine sociale e garante consensuale della riproduzione capitalistica.

È il concetto gramsciano, ancora più elaborato e raffinato nell’analisi del Cesarismo presente nei Quaderni, di «rivoluzione passiva»: una rivoluzione dall’alto delle élite in presenza di una crisi organica, sociale, politica, economica per ricostruire in forma nuova i propri apparati egemonici, una nuova forma Stato.

Certamente, le analisi gramsciane, per quanto legate a un determinato periodo storico e quindi sempre da contestualizzare, ci parlano ancora con una sorprendente «attuale inattualità». Così come tutti i grandi rivoluzionari del passato, tenendo presente il mutamento epocale, il cambio di paradigma che segna la contemporaneità post-fordista e il declino dello Stato-nazione nella globalizzazione capitalistica.

Gramsci interpreta il cesarismo-bonapartismo come effetto di una situazione di stallo delle forze politiche nel quadro della “crisi organica” e della democrazia rappresentativa, quando nessuna di esse riesce a prevalere sulle altre e si verifica un’impossibilità di formare governi stabili. La soluzione diventa l’affidamento del potere esecutivo a una figura carismatica, un «leader al di sopra delle parti», un uomo forte, ma anche una coalizione - che Gramsci definisce «la fusione in un solo partito  in nome dell’interesse generale» - o infine un gruppo oligarchico. Le opzioni sono diverse, ma alla loro base c’è sempre un passaggio critico, una perdita di egemonia delle élite dominanti, il distacco delle forze sociali dai partiti di riferimento, la dissoluzione del rapporto tra rappresentanti e rappresentati. Essa si dà, in sintesi, quando «il vecchio stenta a morire ed il nuovo non riesce ancora a nascere», per usare la suggestiva terminologia gramsciana.

Il populismo va inteso come figura di sintesi indifferenziata, che rimuove il conflitto di classe, la molteplicità delle contraddizioni che attraversano il sociale, e le riduce a una unità totalitaria e indistinta, fluttuante tra destra e sinistra, tra progresso e reazione. senza mai mettere in discussione la struttura del modo di produzione. È il bordo estremo della democrazia rappresentativa, un’ancora di salvataggio alla riproduzione del dominio, uno specchio deformante di sogni ed illusioni, come quello di Alice.

Non ci ricorda forse questa situazione lo stato attuale della politica italiana? Il balletto grottesco tra forze politiche – Movimento e Stelle, Lega, Forza Italia, Pd - nessuna delle quali riesce a costruire un governo e il cui sbocco potrebbe essere  proprio un governo del presidente  o un governo tecnico o il contratto di coalizione alla tedesca, declinato in salsa italiana? In realtà tutti i populismi, di qualsiasi natura essi siano, costituiscono un blocco nemico di ogni processo rivoluzionario e di liberazione sociale e riconducono la rabbia e la protesta delle classi subordinate all’interno dei meccanismi rappresentativi e del potere costituito. Così il vecchio si traveste da nuovo e la potenzialità di un processo costituente veramente innovativo, la creazione di istituzioni non rappresentative, ma espressive di una democrazia rivoluzionaria diretta e un nuovo diritto del “comune” vengono svuotate.

Va di moda utilizzare Gramsci per distinguere tra populismo di destra e di sinistra, ovvero il possibile utilizzo di parte della “ragione populista”, utilizzando anche gli studi di Laclau e Mouffe.

Intanto val la pena citare il concetto di popolo in Marx: «esso non ha niente di naturalistico, bensì si tratta di una costruzione politico-ideologica funzionale all’affermazione del potere della borghesia, della rappresentanza e della democrazia rappresentativa, nel quadro dello Stato-nazione e dell’identità nazionale come orizzonti invalicabili della modernità e come necessaria rimozione dei conflitti di classe e delle contraddizioni sociali». Già in Hobbes la paura della moltitudine ingovernabile, prodotta nelle prime fasi dell’accumulazione capitalistica, introdusse la necessità di trasformare questa moltitudine indistinta e inafferrabile in un ”popolo” dominato e controllato da una sovranità trascendente: la riduzione del molteplice a uno, come paradigma del potere assoluto.

Questo potere che trascende e trasfigura il sociale non necessariamente è un Leviatano: esso è molto di più, ovvero la teorizzazione dell’autonomia del politico, l’espressione della verticalizzazione del comando statale rispetto alle istanze della società civile. Non necessariamente la dicotomia rappresentanti-rappresentati, sussunti all’interno della mistificazione della “volontà popolare”, produce figure cesariste-bonapartiste; anzi per lo più assume la forma di dominio da parte di gruppi oligarchici, un’oligarchia mascherata, appunto, ma non una vera democrazia “insorgente”, come dinamica costituente aperta e permanente.

Ci sembra che la ragione populista contenga in sé e riproduca, in forme diverse, queste costanti strutturali, e quindi non possa proprio per sua natura, al di là delle interpretazioni di destra o di sinistra, uscire da questi binari, costruendo una vera alternativa alla riproduzione del comando di capitale. L’identità di popolo e nazione è esclusiva, traccia un dentro e un fuori, confini insuperabili, nazionalismo,  discriminazioni, razzismo e xenofobia.

L’approccio di Laclau non è privo di interesse e si avvale di strumenti sofisticati, dalla psicanalisi lacaniana a Freud, all’analisi della società dello spettacolo. Ma la sostanza del ragionamento neopopulista non cambia. Il populismo si afferma nella disgregazione del vecchio ordine, quando una molteplicità di domande, bisogni, rivendicazioni provenienti da un corpo sociale estremamente variegato e differenziato sono disattese e non soddisfatte dallo Stato. Così esse tendono a fondersi in una «catena di equivalenze», generica e indifferenziata, che allude ad un sogno –desiderio di omogeneità e comunità. Si tratta di un «significante vuoto», nel linguaggio di Laclau, che può essere riempito da un gruppo particolare che si universalizza, conquista egemonia, rappresenta gli interessi del basso contro l’alto, del «popolo contro le élite», trasfigurando questo  conflitto in una figura carismatica, sempre essenziale nella ragione populista. Il senso di questo vuoto dipende da chi lo riempie: ma questo vuoto può davvero trasformarsi in abisso per la sinistra che volesse riempirlo!

Non possiamo non rilevare un filo hobbesiano in tutto questo apparato concettuale, che tanto affascina i populisti di sinistra, e che porta direttamente a una riaffermazione della sovranità trascendente, all’ autonomia del politico, vero e proprio nonsense nella misura in cui quest’autonomia non c’è più, dissolta dallo stesso comando imperiale trans-nazionale.

Egemonia e potere costituente

In Gramsci i concetti di egemonia, guerra di posizione, spirito di scissione configurano un discorso unico, non riducibile alla melassa nazional-popolare del gramscismo di destra, da Togliatti in poi, ma neppure ad una semplificazione culturalista o meramente sovrastrutturale, come a volta trapela da alcuni ragionamenti sulla valenza dell’egemonia. Il Gramsci rivoluzionario - in fondo sempre fedele alla «linea dell’Ordine Nuovo», dei consigli operai, dell’autonomia di classe e della costruzione del potere operaio - nei Quaderni ritraduce la lezione Leninista e dei Soviet nel contesto di una situazione molto più complessa che caratterizza l’Occidente. Qui lo Stato si circonda di «trincee, fortezze e casematte» nella società civile, attraverso le quali articola costantemente il proprio dominio. Da questo punto di vista, l’egemonia - come unità indissolubile tra forza e consenso, seppure a geometria variabile rispetto alle fasi storiche - diventa potere costituente, completamente immanente al sociale. Essa è il paradigma della lotta e del conflitto su tutti i fronti e con tutti i mezzi, per disarticolare, destrutturare, destituire «le fortezze e le casematte» e, nel contempo, creare le nuove istituzioni della società futura. Un processo rivoluzionario di lunga durata, più simile al concetto di rivoluzione permanente sempre attuale, che elimina qualsiasi «teoria dei due tempi» e autonomia del politico, alludendo a una potenza, contropotere diffuso e costituente, in ogni ganglio della vita sociale.