Living in a Box

30 / 9 / 2009

A Palermo l'attuale giunta comunale Cammarata, in risposta alla sempre crescente "emergenza casa", ha di recente provveduto all'installazione di un campo container nella periferia sud della città: una schiera di 24 prefabbricati sparsi in un'area di 4 chilometri quadrati, privi di servizi sanitari e con illuminazione precaria. Questo provvedimento, che potrebbe apparire come una misura eccezionale a fronte di una situazione drastica, fornisce elementi importanti per comprendere in profondità cosa vuol dire oggi "governo dei territori": il container è il segno più estremo, ma anche più paradigmatico, della trasformazione dello spazio abitativo all'interno delle metropoli.

Piccola premessa. Quella che viene chiamata "emergenza casa"1 a Palermo è in realtà una situazione che ha accompagnato la città lungo tutta la sua storia moderna: una storia segnata prima dai bombardamenti della seconda guerra mondiale e poi dal terremoto del '68: la spinta dell'emergenza ha fatto sì che la ricostruzione e l'allargamento di Palermo non seguissero alcuna programmazione, si è preferito dare spazio alla mano invisibile della mafia edile e dar vita a quello che è passato alla storia come "il sacco di Palermo". L' "emergenza" ha quindi segnato la "normalità" della politica abitativa a Palermo, consegnando al presente una situazione disastrosa: negli ultimi cinque anni ci sono state più di 10.000 richieste di case popolari, a fronte delle quali sono stati assegnati solamente 60 alloggi.

Che "emergenza" è dunque quella che segna la "normalità"?

E' chiaro che la definizione di "emergenza" non è servita ad altro che a permettere il ricorso a misure "eccezionali": è l'istituzione dello "stato di eccezione" che dà vita infatti alla sospensione dello "stato di diritto", è per questa via che è oggi possibile rispondere alle esigenze abitative non con il riconoscimento del diritto alla casa, ma attraverso il confinamento entro dei container.

E' significativo allora che oggi si faccia ricorso proprio a dei container, si faccia ricorso cioè ad uno strumento che viene comunemente usato in situazioni di calamità naturale, quali terremoti o inondazioni, o in situazioni di guerra. E' già paradossale che l'utilizzo dei container in seguito a catastrofi naturali, dall'iniziale momento emergenziale, si sia spesso prolungato per interi anni o addirittura decenni. Basti pensare a come, nonostante i miliardi erogati, quasi trent'anni dopo i terremoti dell'Irpinia o del Belice ci siano ancora centinaia di famiglie che abitano nei container ed esistano interi paesi, come Buccellato, nati in seguito a quei disastri e totalmente composti da prefabbricati.

Gli stessi container del campo di Palermo provengono tra l'altro da una situazione di calamità naturale: sono stati infatti trasportati direttamente dalla Piana dell'Etna, dove erano stati utilizzati per soccorrere gli sfollati dei paesi limitrofi che erano stati costretti ad abbandonare le proprie abitazioni in seguito a colate laviche particolarmente copiose.

La vera novità è allora che oggi il ricorso ai container non serve a rispondere ad un evento improvviso e imprevedibile, ma a fare fronte ad una normale situazione di anormalità permanente. Non avviene cioè per un'emergenza esterna, ma per un fattore "proprio": l'assenza di case non è una conseguenza di una qualche calamità naturale, ma la "causa" stessa della situazione di "emergenza". E' come se il ricorso ai container a scopo abitativo raggiungesse in questo modo la sua funzione ultima, il suo "valore assoluto".

E' la metropoli stessa a rappresentare oggi una calamità naturale (Campania docet).

Il campo container, ovvero il container come campo

Tornano in mente le parole di Giorgio Agamben che nel suo "Homo Sacer" sosteneva che "il campo e non la città è oggi il paradigma biopolitico dell'occidente"2. Agamben indaga il "campo", traduzione del tedesco lager, partendo non dai "campi di concentramento" nazisti e dalle tragedie che hanno segnato la storia del Novecento, ma dagli elementi costitutivi che lo definiscono: il "campo è lo spazio che si apre ogni qualvolta lo stato di eccezione comincia a diventare regola"3, afferma Agamben, quindi "ci troviamo virtualmente in presenza di un campo ogni qual volta viene creata una tale struttura, indipendentemente dall'entità dei crimini che vi sono commessi e qualunque ne sia la denominazione e la specificità topografica"4.

La nozione di "campo", di "lager", è stata in questi anni utilizzata soprattutto per descrivere i centri di permanenza temporanea per migranti, denunciandoli come luoghi di sospensione del diritto. L'ossimoro "detenzione amministrativa" rivela la natura profonda di luoghi in cui si viene privati della libertà personale non in seguito ad un provvedimento giudiziario, bensì attraverso, appunto, una procedura "amministrativa". Non è un caso, allora, che già a proposito dei cpt si ricorresse all'uso di container: si pensi infatti al centro di Ragusa, chiuso nel 2007 tra mille scandali e seppellito dalle proteste, il quale si presentava, proprio al centro della città, tra un palazzo ed un altro, come una distesa irregolare di container. Campo nel campo.

C'è sempre stata nelle reti di movimento la piena consapevolezza che il restringimento dei diritti e le misure repressive rivolte ai migranti fossero un sintomo del restringimento complessivo dello spazio dei diritti e che alcuni provvedimenti inizialmente rivolti alle fasce meno protette, si sarebbero poi estesi ad altri soggetti marginali.

La "somiglianza" del campo container per i senza casa con il cpt di Ragusa suona oggi come la prova tangibile di quell'avvertimento. Il cpt di Ragusa e il campo container di Palermo non sono, appunto, delle eccezioni, ma sono quegli spazi in cui l'eccezione diventa norma.

C'è una differenza evidente però tra i due campi, e non da poco: da un casa container è possibile uscire, mentre da un cpt no.

Ma il ricorso alla stessa misura per situazioni così diverse è un segno dell'attuale complessità delle figure del potere biopolitico.

Ancora Agamben, in un recente articolo dal titolo "Città e metropoli", apparso sul numero 13 della rivista Posse, sostiene che la metropoli non nasce da un'evoluzione della città, ma da una "rottura epistemologica", il cui effetto più immediato è rappresentato storicamente dall'erosione dello spazio pubblico della politica. In quell'articolo, Agamben fa ricorso ad uno schema foucaultiano per descrivere il nuovo spazio metropolitano:

"Si tratta di uno schema complesso, al cui interno i dispositivi semplici di esclusione e divisione (del tipo "lebbra") convivono con un'articolazione complessa degli spazi e dei loro abitanti (del tipo "peste"), al fine di produrre un governo globale degli uomini e delle cose"5.

Foucault in "Sorvegliare e punire" descrive questi due diversi paradigmi, quello della lebbra e quello della peste. Mentre, rispetto alla lebbra, il potere dà vita a meccanismi di esclusione, per quanto riguarda la peste (anche solo l'allarme della peste), prendono piede dispositivi di divisione, sorveglianza e controllo.

Foucault spiega:"Il lebbroso è preso in una pratica del rigetto, dell'esilio-clausura; lo si lascia perdervisi in una massa che poco importa differenziare; gli appestati vengono afferrati in un meticoloso incasellamento tattico, in cui le differenziazioni individuali sono gli effetti costrittivi di un potere che si moltiplica, si articola, si suddivide. La grande reclusione da una parte; il buon addestramento dall'altra. (...) Schemi differenti, dunque, ma non incompatibili; lentamente li vediamo avvicinarsi"6.

Per Agamben è proprio il sovrapporsi di questi due dispositivi, quello dell'esclusione e quello della segmentazione, che costituiscono oggi lo spazio metropolitano.

Questo schema ci aiuta a comprendere la somiglianza e le differenze che passano tra il cpt e la casa container: ambedue sono iscritti dentro un nuovo paradigma di controllo biopolitico, ma attraverso misure diverse e complementari. Il cpt è il luogo dei lebbrosi che vanno allontanati e separati dalla città; il campo container è invece il luogo degli appestati, che non potendo essere esclusi, vengono allora divisi, "sezionati" e sorvegliati. I due dispositivi però, nel momento in cui l'intera metropoli diventa un "campo", tendono sempre più a sovrapporsi: il campo container assume così i tratti della reclusione e il cpt quelli della segmentazione e del controllo.

I dispositivi di esclusione e divisione, in questo senso, non hanno affatto il segno del disinteresse o dell'abbandono da parte delle istituzioni, anzi, sono proprio il segno che il potere se ne sta occupando. E' proprio attraverso l'inclusione nei propri provvedimenti che il potere mette in atto i processi di esclusione e controllo.

E' dentro questo schema che il ricorso al container, nel suo essere un provvedimento estremo, ci dà delle indicazioni importanti, non sulla eccezionalità, ma sulla normalità delle dinamiche del potere. 

Il pianeta dei container

Quando negli anni '50 Malcom McLean inventò i container, portò al sistema dei trasporti una tale rivoluzione da essere paragonata all'invenzione dell'elettricità e del motore a scoppio, tanto che quest'avvenimento fu a ragione considerato uno dei più determinanti per la nascita della globalizzazione. La nuova invenzione permise infatti di standardizzare il trasporto delle merci in unità di carico tutte della stessa misura che potevano viaggiare indifferentemente su rotaia o su strada, dentro navi o aerei, semplificando e velocizzando al massimo il sistema di trasporto mondiale. Da quel momento in poi le merci non viaggiarono più in base alla propria unità, ma in unità di carico più grandi, uniformandosi e rendendosi indistinte.

L'estensione dall'utilizzo del container dal settore dei trasporti a quello abitativo avviene proprio nel segno dell'uniformazione e della lottizzazione. Anzi, proprio la sua capacità di separazione e frammentazione, fanno del container la forma pura della lottizzazione.

L'architettura già da tempo si occupa del possibile utilizzo della struttura container per gli scopi più disparati. Cito solo due progetti portati avanti in due angoli diversi del mondo.

Il primo, quello dei New Yorkesi LOT-EK, che nella loro dichiarazione di intenti scrivono: "LOT-EK sta ri-pensando l'interazione del corpo umano con i prodotti della cultura industriale/tecnologica - LOT-EK sta re-inventando lo spazio e le funzioni domestiche/lavorative/ricreative mettendo in discussione le configurazioni convenzionali". Tra i loro progetti è possibile ammirare avveniristiche ipotesi: non solo abitazioni composte da container, ma anche grossi centri commerciali, alti grattacieli, villette con piscina e addirittura rampe da skate tutti costruiti a partire dalla moltiplicazione e dalla combinazione dell'unità container 7.

L'altro è quello degli olandesi MVRDV che, nel corso delle loro ricerche sulla densità, hanno presentato alla Biennale di Architettura Olandese del 2002 il progetto di una "Container City": "un gigantesco alveare con 3500 nicchie per dormire, mangiare, esporre, recitare. Con spazi per hotel, bar, gallerie, aziende, spazi conferenze, negozi, atelier, scuole, orfanotrofi (..) in cui i container sono utilizzati come piani, come mura e come soffitti". Bizzarro che il video di presentazione del progetto termini con delle fiamme che ricordano in modo inquietante quelle delle Banlieus parigine 8.

Il container però rappresenta solo l'estremizzazione di una tendenza già assai diffusa. Pensiamo ad esempio alle grandi periferie. Cosa sono se non delle composizioni di unità abitative standardizzate intercambiabili? Certo, il fatto che siano in muratura fa una bella differenza, ma il segno resta identico.

Anzi, potremmo dire che mentre le periferie delle grandi città industriali corrispondevano ad un tipo di lottizzazione hard, ad una segmentazione e divisione "pesante" del tessuto urbano, il container ne rappresenta la versione soft, in qualche modo il just in time del disagio abitativo. Il vecchio casermone delle case popolari era la soluzione "a tempo indeterminato" alla questione abitativa, adatta ad una composizione sociale omogenea la cui presenza su un territorio aveva caratteristiche di stabilità. I container rispondono invece alla perfezione ad esigenze di "flessibilità", si aprono ad infinite possibilità di combinazione e ricombinazione modulare ed è possibile idearne una gamma di varianti praticamente illimitata, sempre a partire dall'uniformità della struttura.

Si sa, non esiste più il "posto fisso". La proposta dei container apre allora la strada a quella che potremmo definire "abitazione atipica": una volta fatto il passo dalla casa al container, il passo successivo, quello dal container alla baracca, appare assai breve. Mike Davis ha ampiamente documentato come molti dei mega accampamenti di slum delle grandi megalopoli mondiali siano nati proprio dall'installazione di villaggi di prefabbricati 9.

I container sono il segno allora della foga con cui viene effettuata la riconquista del centro. Il recupero dei palazzi del centro storico ad uso delle elite professionali passa oggi per l'espulsione dei loro storici abitanti. Espulsione non verso le periferie, ma espulsione e basta. Mandati al Diavolo nelle tante Città di Dio che vanno emergendo dietro ogni angolo. E' il segno più evidente che le istituzioni pubbliche non sono in grado di pensare lo spazio complessivo della metropoli se non come luogo di controllo ed esclusione.

Stiamo assistendo al battesimo della Palermo degli Slum?

Tutti i segnali fin qui raccolti farebbero pensare a scenari futuri di tipo distopico. Se mettiamo insieme i dispositivi biopolitici di esclusione e controllo, la scomparsa dello spazio della politica, i progetti di alveari umani della nouvelle architecture e l'estensione del paradigma del campo all'intero spazio metropolitano, lo scenario che si delinea è quello di uno spazio liscio in cui i nuovi dispositivi del potere si inscrivono incontrastati nel Dna del nuovo spazio metropolitano.

Dimentichiamo però un piccolo particolare: il campo container di via Messina Montagne è ancora vuoto. I senza casa hanno rifiutato quella soluzione, si sono organizzati in comitato, hanno occupato per un mese l'aula del consiglio comunale, poi hanno occupato un palazzo appena ristrutturato in pieno centro storico e dopo ancora una villa confiscata ad un boss della mafia chiedendone l'assegnazione per un progetto di aurorecupero.

Segno che ogni progetto di controllo biopolitico non si inscrive mai in uno spazio liscio ma deve fare in continuazione i conti con piani di resistenza ad esso irriducibili.

Note:

  1. Sul campo container di via Messina Montagne e sulla lotta dei senza casa a Palermo si consiglia la visione del video "Senza casa mai più " inserito nel Numero 0 del Videomagazine Kom-Zilla.
  2. Giorgio Agamben, Homo Sacer, Einaudi, Torino, 1995. p. 202.
  3. Ivi, p.188
  4. Ivi, p.195
  5. Giorgio Agamben, Città e metropoli, in La Classe a venire, Posse n.13. http://www.posseweb.net/spip.php?article5
  6. Miche Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1976. pp.216-217
  7. http://www.lot-ek.com/ (entrare in Buildings e poi in "chk container kit", "sanlitun north", ecc.)
  8. http://www.mvrdv.nl/_v2/projects/172_containercity/index.html
  9. Mike Davis, Il Pianeta degli Slum, Feltrinelli, Milano, 2006.
Links Utili:

Gallery

Video del collettivo berlinese AkKraak sul campo containers e lotta per la casa