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I movimenti europei e il diritto a decidere

19 / 12 / 2014

L’autunno napoletano è cominciato il 2 ottobre. La Banca Centrale Europea ha infatti pensato che la nostra città fosse la vetrina migliore per ospitare la prima riunione del consiglio direttivo dopo l’estate; consiglio che ha difatti definito le linee programmatiche dell’organo per i mesi successivi. Una città meridionale, che come la maggior parte delle metropoli del sud Europa paga da anni la crisi con conseguenze sociali drammatiche, che sono anche il risultato delle politiche monetarie delle governance europee. Una città in cui i tassi di disoccupazione e di incremento dei neet raggiungono ormai metà della popolazione attiva. La protervia senza limiti dei tecnocrati della banca centrale ha scelto di barricarsi tra le mura spesse della reggia di Capodimonte, trincerati dietro uno schieramento enorme di forze dell’ordine, in modo da non lasciare alcun dubbio sulla vocazione teologico-feudale del loro potere ad altissima invisibilità e assolutamente incontestabile. 

I signori della moneta a Napoli non hanno fatto altro che scrivere l’ennesima pagina del grande libro dell’austerità e del debito, annunciando nuovi prestiti agli stati per tappare i buchi di bilancio e nuovi incentivi bancari per facilitare il credito. Ancora una volta, nonostante i proclami pubblici che continuamente rinnegano il passato di euforia speculativa e di rigore, crescita e strategia di uscita dalla crisi si traducono solo nella somministrazione dello stesso veleno che ha ammalato il vecchio continente, quello della speculazione finanziaria e dell’indebitamento privato. 

Così, con il monito cinico di Mario Draghi, con il veleno al CS nel naso e nella gola e l’acqua degli idranti sulle spalle di un corteo che stava semplicemente sfilando a ridosso della reggia blindata, è iniziato l’autunno napoletano. Un autunno che ha immediatamente parlato la lingua transnazionale dell’Europa meticcia e moltitudinaria che instancabilmente resiste al potere tentacolare delle governance e a quello pachidermico delle istituzioni nazionali e comunitarie. 

Un autunno che ha scelto, a partire dal 2 ottobre, a Napoli e non solo, dei claims che non possono che trovare uno spazio rivendicativo europeo se vogliono imporsi dal basso nelle agende politiche di governo. Ci riferiamo in particolare al reddito e al salario minimo europeo che, solo attraverso l’abbattimento del confine nazionale della rivendicazione, possono ad esempio diventare efficace strumento di ribaltamento del fenomeno coatta della migrazione della forza lavoro. In un’Europa in cui l’apertura delle frontiere vale solo per lo sfruttamento differenziale messo in opera dal capitale, legare il concetto di cittadinanza europea alla possibilità di accesso universale agli stessi diritti e allo stesso welfare sostanziale, ci pare l’unica strada praticabile oltre la retorica del ritorno a possibili autarchie nazionali. Da questo punto di vista siamo dei convinti europeisti.

Non è lo spazio transnazionale a rappresentare una criticità per la nostra pratica di trasformazione del presente a partire delle esperienze territoriali. Non siamo tra quelli che pensano che una dimensione così ampia di proposizione di istanze trasformative mortifichi le specificità. Anzi crediamo che tali connessioni rafforzino la conflittualità e la potenza rivendicativa. 

Il punto di vista da cui parla l’Italia sullo spazio europeo è certo un punto di vista tanto pregno di intensità sul terreno della conflittualità diffusa ed autorganizzata, quanto asfittico e pericoloso su quello della proposta partitica. Da questo punto di vista l’Europa è terreno di incrocio e ibridazione delle lotte che sorgono attorno a questioni simili ed è pure, in questa fase, un interessante spazio di accumulo di nuove esperienze partitiche che, soprattutto in alcuni paesi del sud Europa, stanno sfidando apertamente e da sinistra i diktat perentori della Troika.

E’ evidente che non possiamo non guardare a quello che succederà a breve in Grecia dopo il voto anticipato della prossima primavera, così come non possiamo non prestare attenzione allo straordinario consenso che Podemos sta guadagnando in Spagna.

Un’attenzione che vive della parzialità del punto di vista di chi pratica in Italia conflitto sociale autorganizzato, ma che non è indifferente alla presenza di forze politiche che si pongono il problema del governo in netta opposizione alle pratiche neoliberali e ai continui inviti alla macelleria sociale dalla banca centrale europea. Forze politiche che in Italia sono assolutamente assenti.

Da questo punto di vista non possiamo neppure sottovalutare l’enorme spazio di consenso che stanno guadagnando in tutta Europa le destre xenofobe e populiste, al quale è necessario rispondere prioritariamente con la conquista meticolosa dei quartieri, delle strade, delle città in cui queste formazioni guadagnano agibilità, marcare una presenza costante ed in grado di produrre contro-narrazioni alla loro vuota ma efficace retorica nazionalista e anti-europeista. Non è ininfluente tuttavia che esistano, laddove sono esplicitamente antifasciste ed antirazziste, forze parlamentari che praticano opposizione nei luoghi della decisione politica.

Probabilmente a fronte dell’apertura di alcuni scenari inediti sul terreno istituzionale di alcune aree europee, che è evidentemente il risultato di un accumulo di radicamento sociale delle lotte e dell’opposizione alle politiche di austerità, non possiamo non porci le domande giuste rispetto alle potenzialità di reale modificazione degli equilibri di potere esistenti e sul terreno dello stato-nazione e su quello europeo.

E’ evidente infatti che assistiamo nell’ambito dell’Unione europea, alla riproposizione dei meccanismi malati, dalla vocazione esplicitamente autoritaria, che abbiamo sperimentato all’interno dello spazio nazionale. Da questo punto di vista è necessaria una analisi microfisica anche del ruolo delle istituzioni politiche europee e non solo delle governance, che ci permetta di cartografare correttamente le articolazioni reali del potere delle controparti. Il ruolo preponderante nei processi decisionali istituzionalizzati dell’Unione Europea che continua ad avere il Consiglio, che altro non è che un conciliabolo dei ministri che nei propri paesi fanno a gara a chi meglio traduce in legge i dettami della BCE, ripete esattamente la tendenza all’esecutivizzazione della produzione normativa.

Gli esecutivi si arrogano il diritto di essere mandatari di sé stessi e di ristrutturare completamente le politiche sul lavoro, sul welfare, sull’ambiente, senza più alcun passaggio formale nelle camere parlamentari. Questo meccanismo di svuotamento dei processi elettorali relativi alla formazione delle istituzioni parlamentari nazionali ed europee trova forza nella riproduzione del modello di grosse koalition alla tedesca, a partire dal dispositivo attraverso cui i partiti compresi nella cornice socialista e nella cornice popolare di destra, tolgono i già minimi spazi di agibilità e di manovra a qualunque opzione alternativa entro quel quadro parlamentare. Ecco perché siamo convinti che, anche sul piano europeo, la capacità trasformativa reale e di riconquista del diritto alla decisione sia tutta nelle mani dei movimenti sociali, unici in grado effettivamente di esercitare una pressione che più che muoversi entro un quadro di compatibilità, mira a sovvertire l’autoritarismo degli stessi processi.

Per fare solo un esempio recente del potere della decisionalità esecutiva a cui ci stiamo riferendo basti pensare al colpo di mano che Juncker ha messo in atto ribaltando la decisione dell’Europarlamento di votare un pacchetto di norme sulla questione ambientale, ritirandolo perché ritenuto “non urgente”. Con una decisione epocale è stato possibile alla sola Commissione bypassare la volontà dei rappresentanti della maggior parte degli Stati membri abolendo, senza colpo ferire, i limiti alle emissioni nocive e le norme che impedivano di sversare nella discariche materiali altrimenti riciclabili. Possiamo stare tranquilli però perché Junker ha promesso di aver ritirato le normative “solo” per proporne di migliori nel 2015. Ci sarebbe da ridere di gusto se non conoscessimo sulla nostra pelle gli effetti nefasti dello sversamento indiscriminato e dell’interramento dei rifiuti e delle emissioni degli impianti industriali altamente inquinanti.

La pratica della democrazia reale che si sperimentano sui territori di tutta Europa come vera forma di blocco e sabotaggio dei processi post-democratici imposti dagli stati e dall’Europa impone la connessione efficace di queste lotte. Non una connessione retorica ed evocativa ma reale ed articolata a partire dai temi.

Senza connessioni non possono costruirsi piattaforme rivendicative efficaci ad esempio sulle questioni che attendono al reddito e al salario minimo.

Senza connessioni non esiste una opposizione reale alla nuova accumulazione del capitale nella crisi, che espropria e devasta per trarre profitto indiscriminato dai territori.

Senza connessioni non è possibile disegnare la nostra mappa dell’Europa che fa della differenza ricchezza.

Senza connessioni l’efficacia delle pratiche costituenti rischia di attestarsi su un insufficiente perimetro nazionale ed essere costantemente superata e resa inefficace dalla forma transnazionale del capitale stesso.

Tutte le vicende, anche quelle che sembrano godere del più becero provincialismo italiano, pensiamo a Mafia-Capitale e all’immagine iconica e stracciona del nostro capitale che viene fuori dalla ricostruzione dei fatti, ci impongono una lettura che non si attesti sulla anomalia italiana, perché la stessa anomalia è in realtà pregna di connessioni con lo spazio europeo e globale. Non possiamo essere noi a perimetrare in nome di una specificità dai tratti fortemente meridionali, la lettura corretta di questa specificità nel quadro del capitalismo europeo. Pensiamo ad esempio a tutto quello che sta attorno alle grandi opere e ai grandi eventi, vero bacino di inesauribile accumulazione del capitale para-legale italiano e a quanto queste mega-macchine di valorizzazione della forza lavoro-precaria e di devastazione ambientale siano il fiore all’occhiello della agenda europea. 

Expo è un esempio per tutti.

Ci sembra per tanto che questa primavera offra due momenti che, connessi, raccontano nel modo più efficace la vocazione nomade ed insieme profondamente territorializzata che per noi devono avere i movimenti sociali europei. Il 18 Marzo e la data di inaugurazione della nuova Tower della Banca Centrale ed il primo Maggio dei movimenti contro l’Expo milanese, che oggi più che mai ha l’esigenza di diventare una giornata che rivendichi complessivamente la cacciata dei signori della mafia e del capitale dai nostri territori e dalle nostre città, sono occasioni che devono mostrare lo sguardo transnazionale con cui scriviamo l’agenda.


*NapoliProject