L’estintore e la trave

Quando difendersi è legittimo

13 / 10 / 2009

Il teleobiettivo schiaccia i piani sovrapposti, ma la profondità di campo la conosciamo bene. Sullo sfondo c’è il Defender blu dei Carabinieri. Da un finestrino rotto sporge una trave di legno che termina nelle mani di M.M. Dal lunotto posteriore, infranto dall’interno a colpi di anfibio, si intravede la sagoma di una mano che impugna una pistola. In secondo piano c’è C.G. ragazzo in canottiera, che sorregge un estintore appena raccolto. Vuoto, pesa circa due chili. In primo piano un viso che in quasi dieci anni ci è diventato familiare: E.P. Ci guarda negli occhi da sotto il casco, a bocca aperta, protetto da un giubbotto salvagente arancione. Ha l’espressione di chi si sente in pericolo. In mezzo, mischiati, altri corpi in movimento. L’audio di quei momenti ci riporta due colpi secchi, ravvicinati, in mezzo al frastuono. Il rumore inconfondibile di un’arma automatica. E ancora una voce che urla no no… porca troia! Dal passamontagna di quel ragazzo in canottiera, riverso sul selciato, inizia ad uscire il sangue. Piazza Alimonda, le 17 e 20 del 20 luglio 2001. Genova, per noi, è tutta qui.

Tutta la storia, tutto il senso del G8 2001 sono racchiusi in questo fotogramma. Se potessimo dilatarlo, come fosse un gigantesco grandangolo virtuale, con un po’di pazienza potremmo ritrovarci tutti. Quelli che c’erano e quelli che non c’erano.

Quelli scesi dallo Stadio Carlini - guerrieri senza armi di un Esercito di Sognatori protetto da improbabili armature di plastica - fino all’incrocio tra Via Tolemaide e Corso Torino, dove i primi colpi di pistola si sono sovrapposti ai botti dei tromboncini lanciagranate. Quelli (gli unici) che marciavano verso la Zona Rossa. Quelli che hanno resistito alla prima carica, improvvisa e violentissima, e poi alle successive. Quelli che hanno difeso i propri e gli altrui corpi armandosi (a questo punto sì) con tutto quello che potevano trovare. Quelli che hanno invertito il senso della fuga andando contro le nostre polizie assassine. Quelli che dopo aver scansato decine di blindati lanciati a velocità omicida ne hanno reso uno inservibile. Quelli che hanno sputato sangue perchè il gas CS è proibito da tutte le convenzioni. Quelli delle teste rotte e dei punti di sutura. Quelli che hanno scelto di stare nel movimento e non altrove, in una rappresentazione non caricaturale, non ideologica, di che cosa significa agire il terreno del conflitto. Quelli che hanno voluto e saputo riportare tutti a casa.

Nell’espansione di quel fotogramma ritroviamo, osservando bene, anche tutti quelli che in quelle giornate d’estate non erano a Genova, ma in quelle giornate hanno identificato un paradigma di riferimento che è stato fatto proprio in tutti i quadranti di lotta dello scacchiere europeo. Quelli che mettendo in gioco i propri corpi hanno rivendicato e rivendicano con forza il diritto a manifestare. Quelli che delle commissioni parlamentari non sanno che farsene. Quelli per cui la pratica di difendersi dalla violenza poliziesca è norma non scritta e logica condivisa, terreno di confronto continuamente spostato in avanti. Quelli che hanno al centro del proprio pensiero la necessità di legare la materialità di comportamenti illegali di massa a terreni concreti di difesa e/o di conquista di una migliore qualità della vita. Quelli che non si preoccupano di cambiare pelle perché sono convinti che nessuna elaborazione programmatica deve essere statica, eguale a se stessa all’infinito. Quelli che non hanno le “cose” come obiettivo, ma la sistematica reinterpretazione delle forme del conflitto e delle relazioni tra soggetti diversi. Quelli che hanno condiviso che è prima di tutto la messa in pratica del diritto di resistere la chiave di impedimento a che la violenza statuale non abbia come appendice giudiziaria scenari perversi di sanzionatura penale.

Ora la sentenza della Corte di Appello di Genova ci conferma qualche cosa che sapevamo già da molto tempo: la Giustizia di Stato colpisce i più deboli. I più vulnerabili perchè i più isolati. I più facili da contrabbandare come criminali. Protetta la catena di comando da un salvacondotto che vige da tempi immemorabili, sottratti al giudizio gli assassini (il plurale è obbligatorio) di Carlo Giuliani, avviati serenamente verso la prescrizione gli imputati - pochi e tutti promossi - del massacro della Diaz e delle torture di Bolzaneto, assolti De Gennaro e Mortola, non prova vergogna davanti agli 8, 12, addirittura 15 anni di reclusione in capo a una manciata di manifestanti tra i più di trecentomila che diedero vita a quelle giornate. Non prova vergogna nel raffronto tra qualche vetrina infranta, qualche cassonetto incendiato e i corpi di quei ragazzi che, con frequenza seriale, le nostre polizie lasciano esanimi sul selciato restando regolarmente impunite. Non si sentono a questo riguardo levare alte le voci di quei sedicenti garantisti impegnati allo spasimo solo nel tentativo di vedere il Papi difendersi in un processo e non “dal” processo.

L’indignazione - assoluta e trasversale - non deve impedirci di ricordare che è contro una trave e un estintore che sono partiti quei colpi di pistola. Attrezzi molto diffusi dalla Val di Susa a Chiaiano, passando per Vicenza e numerosi altri luoghi. E di mettere a fuoco che, guardando al domani, questa sentenza può costituire per tutti una lezione.