Leggi memoriali e paradigma vittimario pt. 4 - Per un uso pubblico e politico della storia

5 / 4 / 2017

Cercare di costruire una narrazione della storia ed un suo uso pubblico alternativi a quelli utilizzati dagli stati-nazione e dalle classi dominanti credo sia uno dei compiti urgenti con i quali devono misurarsi tutti coloro che intendono apportare un cambiamento radicale all'ordine di cose esistenti.

Questo non significa però tornare a raccontare il passato in un'ottica militante di tipo novecentesco, che oggi apparirebbe fuori tempo massimo. Non solo perché si è dimostrato fallace il finalismo tipico del socialismo reale («il marxismo-leninismo ci mostra la via verso il sol dell'avvenire»), ma anche perché la riflessione storiografica della seconda metà del XX secolo ha elaborato strumenti (ad esempio la storia di genere, le varie declinazioni della storia sociale, la microstoria, eccetera)  che di fatto contrastano ogni uso mitologico e strumentale del passato ai fini di inquadramento delle masse.

Non a caso oggi gli studiosi che si occupano di storia della resistenza devono da un lato combattere contro i falsari revisionisti a la Pansa, che pretendono di far passare come «vera storia» le peggiori menzogne della propaganda neofascista, ma dall'altro devono  riportare ad una dimensione reale molte delle figure esemplari e degli episodi tramandati dalla memorialistica resistenziale.

È il caso ad esempio della morte di Dante di Nanni, il giovane partigiano gappista caduto nel maggio 1944 a Torino dopo un lungo conflitto a fuoco con le preponderanti forze nazifasciste che avevano accerchiato l'appartamento in cui si trovava solo e ferito in seguito ad un'azione sfortunata. Il racconto della morte di Di Nanni, narrato dal suo comandante Giovanni Pesce nel libro Senza tregua. La guerra dei GAP, è forse il racconto resistenziale che più è entrato nell'immaginario collettivo di generazioni di militanti: Dante, solo e ferito, tiene testa per ore a centinaia di fascisti e tedeschi; una volta esaurite le munizioni esce allo scoperto sul balcone del proprio appartamento e dopo aver salutato col pugno chiuso si lancia nel vuoto per non cadere vivo nelle mani del nemico.

Nel 2012 uno studio di Nicola Adduci su «Studi storici», la rivista dell'Istituto Gramsci, intitolato Il mito e la storia: Dante di Nanni, ha ricostruito la morte del giovane partigiano attraverso nuove fonti. Di Nanni avrebbe si tenuto testa solo e ferito al nemico per ore, ma una volta esaurite le munizioni avrebbe cercato di nascondersi nella canna della pattumiera dell'edificio in cui si era rifugiato. Lì sarebbe però stato scoperto e ucciso a sangue freddo dai fascisti. Questo studio è stato da qualcuno accusato di prestare il fianco alla propaganda dei neofascisti, ai quali naturalmente non è parso vero di poter gridare ai quattro venti che «il mito del gappista eroico è crollato!». In realtà la studio di Adduci ci restituisce la dimensione più autentica e più vera di Di Nanni e dei suoi compagni e rende loro giustizia assai più di quanto non facesse la precedente racconto mitopoietico elaborato nel clima di una cultura ancora intrisa di militarismo e di culto dell'eroe guerriero. Scopriamo così la dimensione concreta e autenticamente proletaria della lotta impari contro l'esercito nazista condotta da un piccolo gruppo di uomini, donne e ragazzi; la dedizione del comandante Visone (Giovanni Pesce) che ignora gli inviti del comando garibaldino a non esporsi personalmente (vista la sua posizione di responsabilità) e continua ad andare in azione assieme ai compagni; la tenacia dei gappisti catturati che cercano di resistere alle torture per dare il tempo ai compagni di cambiare nascondiglio e soprattutto l'umanità di Di Nanni che una volta accerchiato nel suo nascondiglio, dopo aver respinto il primo assalto nemico anziché finire a sangue freddo due fascisti che ha gravemente ferito li sposta sul balcone in modo che possano essere portati in salvo dai vigili del fuoco. Inoltre proprio l'ultimo disperato istante in cui cerca di nascondersi mostra solo il più che normale attaccamento alla vita di un ragazzo diciottenne e fa capire quanto coraggio fosse necessario per entrare nella resistenza e scegliere di combattere nelle condizioni peggiori una lotta senza esclusione di colpi.

Per questo è bene ricordare che non abbiamo bisogno di miti, siano essi basati sul paradigma vittimario o su quello eroico, di storie edificanti speculari a quelle su cui si regge la narrazione del passato creata dallo stato borghese o dal mercato delle emozioni-merci. Ci occorrono piuttosto studi seri capaci di restituirci tutta la complessità e la ricchezza presenti nelle vite reali delle persone.

Le stesse riflessioni possono essere estese a contesti più ampi. In un precedente articolo avevo criticato la narrazione intrisa di nazionalismo se non di neofascismo e razzismo che in occasione del «Giorno del Ricordo» le istituzioni propinano agli italiani. È infatti doveroso opporsi alle palesi falsificazioni storiche ricordando che le vittime delle esecuzioni sommarie e delle deportazioni operate dall'Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo nella Venezia Giulia furono poche migliaia (come afferma il testo elaborato nel 2000 dalla commissione storica italo-slovena formata da storici di entrambe i paesi) e soprattutto si svolsero in un contesto che aveva visto il dispiegarsi di una ben maggiore violenza nazifascista. Inoltre “l'Esodo istriano”, ovvero la partenza dall'Istria di 250.000 persone, la stragrande maggioranza della componente italofona di quelle terre (ma anche decine di miglia di sloveni e croati), avvenne nell'arco di più di un decennio e fu originata da varie cause (oppressione politica e religiosa, miseria, legame culturale con l'Italia) e non può essere raccontata come una fuga in massa dinnanzi al rischio di essere immediatamente infoibati in massa dalle sanguinarie orde di «selvaggi slavi».

Ma una volta mostrata la debolezza e la falsità della narrazione nazionalista e fascista che lo stato italiano ha fatto propria occorre passare alla costruzione di una nostra narrazione della storia del confine orientale. E questa narrazione non deve indulgere nell'esaltazione di un modello di socialismo già superato né nella celebrazione retorica del valore partigiano, ma piuttosto deve cercare di raccontare la storia di una terra di confine abitata da diversi popoli in un'ottica di lungo periodo, prendendo spunto dalla grande intuizione politica e storica di Abdullah Ocalan: «La storia della modernità è anche una storia di quattro secoli di genocidio culturale e fisico in nome di una società unitaria immaginaria». Ovvero la costruzione degli stati-nazione ha distrutto il tessuto multi-etnico e multi-culturale di buona parte d'Europa, soprattutto di quella centro-orientale  annientando la grande ricchezza costituita da questa complessità. La più grande sconfitta del socialismo reale è stata proprio l'incapacità di uscire dagli schemi della modernità capitalistica e statalista per creare una reale modernità democratica, cioè basata sul pluralismo etnico, linguistico, culturale, religioso ed ideale. Se non affrontiamo questo nodo e se non lo facciamo attraverso l'esempio più vicino a noi, cioè l'esodo istriano, non potremo attuare la necessaria revisione critica delle esperienze rivoluzionarie del Novecento.

Senza dubbio occorre specificare come il regime socialista Jugoslavo, a differenza di quanto fecero quello polacco o di quello cecoslovacco con la minoranza tedesca, non intendesse cacciare la minoranza italiana dal proprio territorio. Ma a causa di un intreccio di fattori politici, economici, sociali e culturali si giunse all'Esodo, con la conseguente distruzione quasi completa della natura multinazionale e multiculturale della società istriana, annientando per sempre una ricchezza immateriale di inestimabile valore. Senza dubbio la responsabilità di quanto avvenne non è da attribuirsi solo al regime di Tito, ma anche al governo italiano e alle organizzazioni degli esuli, ma qualunque ricostruzione delle responsabilità storiche non può prescindere per chi si considera un rivoluzionario da un'affermazione di principio: nessuna conquista del potere, nessuna più o meno gloriosa vittoria, nessun obiettivo politico, economico o sociale merita di essere perseguito a prezzo della distruzione delle complessità e delle diversità presenti nella società. Il nazionalismo ed il razzismo dilaganti nei paesi dell'Europa centro-orientale e balcanica devono essere in questo senso per noi un terribile memento di cosa accade quando dimentichiamo che il dovere degli antifascisti e dei rivoluzionari è in primo luogo quello di proteggere la complessità del reale dalle sanguinose semplificazioni della modernità capitalista perseguendo il pluralismo nell'ottica della costruzione di una modernità democratica.

«Pluralismo» in una reale democrazia naturalmente non significa, come nella «democrazia» borghese, il diritto per i fascisti di propagandare liberamente nazionalismo e razzismo, né diritto per gli sfruttatori e gli aguzzini di fare i loro porci comodi sulla pelle delle moltitudini. Significa piuttosto la fissazione di un insieme di regole chiare che consentano una reale autogestione dei lavoratori e fissino il quadro di una reale convivenza tra culture, religioni e ideali diversi all'interno di una comune cornice di valori e obiettivi. È stato forse la mancata fissazioni di regole certe, poste a priori sia della volontà consapevole dell'organizzazione rivoluzionaria che dell'azione spontanea delle classi oppresse, il più grave difetto teorico della cultura politica bolscevica e della cultura rivoluzionaria del Novecento tout court. Un difetto su cui occorre riflettere non per rifuggire l'azione rivoluzionaria volta alla trasformazione dell'esistente ma per renderla più incisiva in una fase storica in cui appare assolutamente necessario trasformare le rivolte della moltitudine in azione costituente e quindi rivoluzionaria.