Intorno alla violenza di genere, errori ed orrori.

Le parole sono importanti. (La lotta di più!)

Il linguaggio costituente della difesa dei diritti delle donne.

6 / 9 / 2013

“Le parole sono importanti”. L’uso della famigerata citazione morettiana casca ancora una volta a pennello. Soprattutto in politica, soprattutto quando si scrive con una certa autorevolezza trattando pubblicamente tematiche delicate, che esigono coscienza ed umanità, al di là delle rigidità teoriche ed ideologiche.

Le “etichette”, invece, ordinano con rigore il mistero della complessità del mondo, dividono, sigillano, immobilizzano la dinamicità dei termini, semplificano, e, spesso, condannano.

Mondi che si scontrano con più o meno veemenza, portandosi dietro lacune di linguaggio e di sostanza, e/o (una circostanza non esclude l’altra) creando sottili ombre fumose che si confondono e che non disambiguano affatto le “verità nascoste”, come titola la rubrica dell’articolo comparso su Il Manifesto in data 31/08/2013 (vedi www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20130831/manip2pg/14/manip2pz/345204/). A meno che non ci si armi di ampi strumenti di lettura, e, con impegno e cura, si tenti di comprendere  a fondo in cosa consiste la reale comunicazione dell’altro ed il suo scopo, l’origine e la cornice di riferimento degli enunciati, nell’idea che uno scambio di opinioni possa pur sempre essere utile ed interessante, è difficile trovare dei varchi di contatto di pensiero, senza restare invece feriti dall’articolo in questione. D’altro canto, un incontro potenziale richiederebbe di ridefinire incessantemente il limite dell’onnipotenza nel  permettersi di dire “tutto quello che si vuole”, consentendo alla propria fiducia un eccesso di dedizione verso un certo tipo di sapere e finanche verso se stessi. E  se dopo tutto, quanto si è scritto ha delle ricadute, e desta stupore, amarezza, indignazione, sarebbe opportuno mettersi in gioco ed assumere il dubbio che possa esserci un pezzo di realtà che evidentemente è sfuggito, un punto di vista che non si è colto, o che il nodo in questione sia stato indagato con strumenti trasportati da un campo all’altro pur essendo specifici di una determinata disciplina, o, ancora, che la visione del problema sia stata definita e deformata dalle  lenti abituali con le quali ognuno guarda il mondo e che ci fanno pensare e parlare in questo o in quell’altro modo sulle cose.

Non sempre, infine,  una riconciliazione è possibile, e su questo bisognerebbe farci pace.

Non sempre esiste la via del compromesso tra un linguaggio normativo-istituzionale-scientifico-accademico e le sue pretese, ed un linguaggio costituente collettivo-comune sulla società ed i fenomeni che in essa avvengono, compromesso che comunque necessiterebbe a priori della volontà di raggiungerlo.

Detto ciò, andiamo al sodo ed illustriamo i motivi per i quali il testo di Thanopulos, rinomato psicoanalista, ha creato tanto scompiglio, nel sorprendente avallo di un quotidiano che ogni tanto sembra prendere inspiegabili deviazioni d’opinione, che deludono i lettori, in particolare coloro che non solo leggono, scrivono e commentano, ma che lottano ogni giorno e che cercano di essere soggetti attivi di un cambiamento.

Questi pensieri finora scritti sembrano esprimere, ma, si noti bene, dall’altra parte, gli stessi concetti che introducono le riflessioni di Thanopulos: l’accusa di stigmatizzare con l’utilizzo di certe parole è però dall’autore rivolta a chi commette l’ “errore” di parlare di “violenza di genere”, il che condurrebbe a “concepire la donna e l'uomo in modo indipendente dalla loro complementarità e attribuire all'uomo una violenza nei confronti della donna connaturata al suo modo di essere (e risalente al suo patrimonio genetico). In entrambi i casi la vittima predestinata è la sessualità: si pretende di considerare la relazione sociale tra i due sessi a prescindere dal legame di desiderio”.

Ma cos’è questa complementarietà tra uomo e donna?

Dal dibattito che si è generato già solo in merito a questo primo passaggio, è possibile cogliere che non è affatto semplice circoscrivere con un’uguale accezione questo termine.

C’è il linguaggio della psicoanalisi e c’è il linguaggio politico, c’è il linguaggio che stabilisce norma-patologia-devianza, c’è il linguaggio di chi vuole difendere i diritti di tutti gli esseri umani. Per quanto si possa, con beneficio del dubbio, credere, come premessa, che ogni ordine del discorso sia mosso dai più nobili intenti, bisogna rendersi conto che assunti, motivazioni, oggetti, fini, non possano essere esattamente corrispondenti e sovrapponibili, bensì c’è un divario, quanto grande non sono in grado di stabilirlo, ma so che c’è.

In situazione di divario, se si commenta e si critica bisogna sapere bene cosa si va a commentare e criticare, e non siamo, bisogna ammetterlo, sempre così informati su cosa c’è dall’altra parte. Complementarietà, a grandi linee, è un termine che indica una interdipendenza, un fattore senza cui l’altro non può esistere, in base ad una differenza che li unisce.

Chi scrive, mesi addietro, ha vissuto insieme ad altre/i, una magnifica esperienza di crescita in Tunisia. Lì abbiamo avuto modo di entrare in contatto con le comunità autoctone, che erano state impegnate, tra le altre azioni politiche post-rivoluzione, a contestare la bozza della nuova Costituzione, per un semplice termine, che guarda caso, era “complementarietà”, e "a volerla erano stati gli esponenti più duri (che poi si sono tirati dietro tutti gli altri, anche i cosiddetti moderati, donne comprese) di Ennadha e di altri partiti ultraconservatori che, in questo modo, avrebbero sancito che la donna in Tunisia non è un soggetto sociale a sè stante, con i medesimi diritti dell'uomo, ma qualcosa in meno ed in peggio: un soggetto, appunto, complementare, che da solo non è nulla, ma che ha bisogno di un uomo per non restare incompiuta” (da Ansa, 25-09-2012).

Con questo esempio spero di aver chiarito meglio che con le mie parole cos’è che non va bene per noi per descrivere il rapporto tra uomo e donna con un tal concetto. Lo psicoanalista lo giustifica però con il desiderio sessuale che lega le due entità in maniera ineludibile… dunque tutto ciò che sta al di fuori di questo legame è non visto, inaccettabile, incomprensibile, tanto vale non considerarlo.

Voglio dire, esiste quest’unico modo di leggere le cose, cioè il desiderio tra due opposti o esiste anche dell’altro?

In un botta e risposta tra la lettera di un lettore scritta proprio a Thanopulos e riportata su Il Manifesto e il seguente chiarimento dello psicoanalista, quest’ultimo afferma: "Credo che tu abbia frainteso il significato che attribuisco alla «complementarità": né l’uomo né la donna esistono come tali al di fuori della loro relazione di desiderio (della sua possibilità nel loro mondo interno).

Nella prospettiva dei «generi» la donna e l’uomo possono essere concepiti ognuno per conto suo. A dire il vero il concetto di «sesso» va meglio di quello di «genere» perché implica la sessualità (che perfino nelle sue dimensioni più autoerotiche riconosce la presenza dell’altro). Che senso avrebbe parlare della «presa» e della «spina» come «generi»? Sono fatti l’una per l’altra.

Se poi teniamo conto dell’intreccio della femminilità e della mascolinità nella donna come nell’uomo e delle identificazioni reciproche tra gli amanti nell’amplesso amoroso, restituendo all’incontro erotico tutta la sua complessità, diventa ancora più chiaro perché il concetto di «genere» è fuorviante. Indipendentemente dalle intenzioni, esso inevitabilmente rimanda a entità a sé stanti che hanno il loro fondamento ultimo in un funzionamento separato innato.

La complementarità non è innata (spesso non funziona con conseguenze penose) e neppure la soddisfazione del desiderio (la frustrazione è sempre in agguato). Innato è il collegamento tra la soddisfazione del desiderio e la complementarità dei sessi. Ciò assegna alla relazione con l’altro e alla socializzazione della nostra esperienza un’importanza fondamentale.

Psichicamente non si nasce uomo o donna (lo si è soltanto da un punto di vista biologico) ma con una predisposizione bi-sessuale (che sorregge inconsciamente la nostra sessualità tutta la vita). Uomo o donna lo si diventa in seguito (è un processo che a volte produce dolorose discordanze tra corpo e psiche) e mai al di fuori della complementarità con l’oggetto desiderato (che sostituisce l’iniziale bi-sessualità trascrivendola come possibilità di incontro). Se costruiamo due oggetti distinti e separati e li chiamiamo «donna» e « uomo» e cerchiamo poi di farli relazionare tra di loro non ci capiamo più niente.

Lo stesso accade quando parliamo del padre fuori dalla sua collocazione nel letto coniugale. Più in generale, non sono le relazioni di potere o di dominio che spiegano la relazione di desiderio: è la prospettiva opposta quella più funzionale. […] I motivi per cui il rigetto del coinvolgimento erotico assegna all’uomo il ruolo del carnefice e alla donna quello della vittima sono complessi (e in altre occasioni ho cercato di parlarne). La cosa importante è che la giusta difesa delle donne (che è la condizione sine qua non di ogni soluzione dell’enorme problema) non resti nel campo del «politically correct», e quindi della sola forma, ma diventi sostanza di un rivoluzionamento del nostro modo di concepire la relazione di desiderio, che è il fondamento della nostra esistenza.

Essere morti viventi che uccidono è cosa ben più grave di essere uccisi ed essendo un uomo (maschio, come tu sottolinei), incapace di concepirmi indipendentemente dalla donna, ne sono molto preoccupato. Insomma non parlo come amico o fratello della donna ma come soggetto desiderante. L’amicizia o la fraternità prive del desiderio sono poca cosa”. 

Ho ritenuto importante e corretto riportare gran parte delle asserzioni esposte, e di sicuro trovo molto complesso districarmi all’interno della matassa: sintetizzando, la psicoanalisi vede come sia ineliminabile il desiderio tra soggetto (maschile) e oggetto (femminile), come esso sia motore della relazione, e indica come causa di violenza il rigetto, il difendersi dal coinvolgimento sentimentale; inoltre, non è molto chiaro quanto, in tutto ciò, ci sia di genetico e innato, e quanto sia culturale.

Fatto sta, che l’autore stesso ammette di aver usato “genere” e “sesso” senza troppa attenzione, confondendosi tra l’uno e l’altro vocabolo.

E fatto sta che rimane un enorme non detto: la donna che desidera, come soggetto attivo, esiste, può esistere, e può ottenere le stesse giustificazioni di condotta concesse all’uomo?

Quello che inoltre mi preme, è che torna molto spesso questo semplicistico determinismo che esclude un’infinita serie di possibilità, destini e sbocchi (anche di orientamento sessuale, ma non solo), talmente è sicuro il rincorrersi di cause ed effetti ben precisi.

Si tratta di soluzioni affascinanti ed al contempo rassicuranti, perché finchè è così, mai ci potrà essere dell’altro, e hai voglia a parlare di rivoluzionare il modo di pensare, come egli suggerisce romanticamente!

Inoltre, non si capisce come si possa accettare che desiderio e potere siano necessariamente distinguibili, come se il frullato potesse tagliarsi con la cesoia!

Sempre nel primo articolo, a suffragio della sua tesi, l’autore spiega ulteriormente, lasciandoci con un certo imbarazzo: “La violenza nei confronti della donna è sociale e danneggia egualmente uomini e donne come soggetti sessuali. Nella sostanza danneggia più l'uomo che la donna perché l'uomo violento perde il suo oggetto del desiderio e subisce una deprivazione psichica devastante. Una donna può essere sopraffatta dalla violenza ma restare internamente viva mentre l'uomo sopraffattore è già morto dentro.”

Allora, qui ribolle il sangue. Le interpretazioni psichiche dell’animo umano possono essere condivisibili o meno, interessanti per alcuni, assurdità per altri. 

A questo punto, invito caldamente però che le riflessioni teoriche finiscano dentro le rubriche e le riviste scientifiche/specialistiche che leggono i professionisti del settore, perché diffondere un articolo del genere, con questo linguaggio altisonante e accademico, non privo peraltro  di contraddizioni, rende particolarmente ardua la buona interpretazione, a voler essere garbati e senza pregiudizi.

Chi sta lottando contro la violenza sulle donne non può accettare che il proprio senso di giustizia si pieghi a tener conto delle “deprivazioni psichiche devastanti” di un uomo che abusa, non può accettare che la donna venga vista come la parte che resta viva dentro, nonostante le drammatiche ferite…

Questo è il punto. O parliamo della necessità e della voglia di rivendicare i diritti della parte che meno ne possiede, all’interno di un conflitto, o parliamo di quanto è triste il ricco di essere ricco e solo, e dei dolori e delle apprensioni del re che regna sulla povertà del suo popolo… cioè, se cambiamo i fattori in gioco, forse è tutto più chiaro, e sappiamo ancora di più da che parte stare, senza avere neanche molto bisogno di conoscenze illuminate sull’animo umano.

Per questo, come dicevo all’inizio, è chiaro che si parte da presupposti diversi e si vuole probabilmente arrivare ad obiettivi differenti.

Credo che anche i termini, convincenti e adulatori, di “desiderio” e “rivoluzionamento” abbiano accezioni diverse tra chi la politica la fa (dal basso) e chi scrive dall’alto e all’interno di un orizzonte teorico disciplinante.

Noi crediamo certamente nel desiderio, siamo “macchine desideranti” come insegnano Deleuze e Guattari, flussi di desiderio, situati al di qua della distinzione tra soggetto e oggetto. Questo tipo di desiderio però è positivo, cioè produttore di realtà, ed è sovversivo, perché mira alla libertà, e per questo è capace di rinunciare al possesso esclusivo ed individuale di un oggetto-proprietà.

Per quanto riguarda il “rivoluzionamento”, insomma, per fare una battuta conclusiva: ci sono delle soggettività sensibili e desideranti, che percepiscono le ingiustizie e ci vanno contro a capofitto fino in fondo, in maniera collettiva, ci vanno contro per costruire qualcosa di migliore, basato sull’uguaglianza e sulla libertà, per il benessere e la felicità comuni.

Il “politically correct”- mi tolgo ancora un sassolino dalla scarpa - non c’interessa e non ci descrive, e mi sembra perfino ridicolo dirlo.

 Non definiamo tutto così perfettamente come possono fare le teorizzazioni, delimitiamo men che meno la sessualità, perché “le parole sono importanti” e a volte giustificano l’ingiustificabile.

Irene, Donne in Movimento