Da Progetto Melting Pot Europa

Le opportunità della contestazione. Riflessioni sul Festival filo-regime eritreo a Bologna

di Filippo Nuzzi e Neva Cocchi

3 / 7 / 2014

Vi è un nesso diretto tra i regimi dittatoriali africani, la fuga di milioni di persone dalle proprie terre d'origine e le connivenze delle istituzioni europee, anche quelle più democratiche e solidali.

Ne è un esempio la posizione del Comune di Bologna, la cui sede in piazza Liber Paradisus, dovrebbe essere là a ricordare che questa città, già 800 anni fa, aveva proclamato l'abolizione della schiavitù dell'uomo sull'uomo. E invece l'amministrazione comunale non si oppone alla concessione dello spazio municipale Parco Nord ad una kermesse che si terrà il 4 ed il 5 luglio per celebrare il regime eritreo, tra i più violenti al mondo e la cui repressione provoca la fuga annuale di migliaia di persone. Almeno tremila lo scorso anno. Molte delle quali muoiono nel deserto o nel mar Mediterraneo. Come le 366 vittime della strage dello scorso 3 ottobre a poche miglia dall'isola di Lampedusa. Eritree appunto.

La protesta del cartello di associazioni che costituiscono il Coordinamento Eritrea Democratica si è velocemente diffusa in città, annunciando le contestazioni della parata di regime, cosa che ha provocato l'imbarazzo del Comune e delle cooperative che gestiscono l'area del Parco Nord, che si sono affrettate a prendere le distanze dalla manifestazione spiegando però che non potevano impedire la sfilata di regime perché era stato ormai preso un accordo. Eppure l'evento di propagande di un regime che reprime ogni opposizione e impone una leva militare obbligatoria senza limite di tempo in una condizione di guerra perenne meriterebbe una maggiore condanna da parte delle istituzioni locali.

La mobilitazione promossa da Eritrea Democratica pone, inoltre, nuovamente il tema di una protezione internazionale inefficace nei confronti di chi fugge da situazioni di conflitto. Che tipo di messaggio viene dato ai dissidenti in fuga dall'Eritrea, così come da altri totalitarismi, se per salvarsi devono attraversare in condizioni disperate il deserto ed il mare? L'istituzione di percorsi di viaggio regolari direttamente dai luoghi dove i migranti partono non è più rinviabile. Le ennesime morti in mare di questi giorni sono lì a sollecitare le istituzioni nazionali e comunitarie.

La contestazione del Festival del regime eritreo a Bologna pone però anche un'altra urgenza, ossia quella di un aggiornamento dei saperi delle istituzioni locali sulle realtà geo-politche dei paesi di provenienza delle diaspore. Infatti la vicenda di questi giorni rivela che gli apparati politici afferenti alla tradizione della sinistra bolognese non si sono accorti della svolta totalitaria del Presidente Afewerki. Le relazioni di questi con le comunità eritree giunte a Bologna negli settanta e ottanta si sono cristallizate per 40 anni, continuando a pensare che l'Eritrea di oggi fosse quella del 1974, quando è iniziata la battaglia-guerra per l'indipendenza dall'Etiopia, avvenuta poi nel 1993. Questo spiega anche la difficoltà di Comune e Ente gestore dell'Arena Parco Nord di distinguere all'interno della comunità eritrea le enormi fratture tra chi sostiene il regime (spesso discendente di quella prima diaspora che nella nostra città ha trovato accoglienza e appoggio soprattutto nei settori della sinistra) e chi ne denuncia i crimini (in particolare i rifugiati da metà anni novanta a oggi). Un vizio, quello di considerare le comunità come soggetto monilitico che permea da decenni il lato buono delle politiche di accoglienza e “integrazione”, orientate a favorire le forme di rappresentanza dei migranti su base nazionale, anche attraverso la promozione di istituti di rppresentanza svuotate però di ogni potere, come ad esempio il Consiglio provinciale dei migranti e apolidi o altre simili Consulte che hanno connotato le politiche in materia di immigrazione delle amministrazioni emiliano-romagnole nel primo decennio degli anni 2000. La vicenda del Parco Nord, spiegata in termini di mero appoggio ad una comunità nazionale, ha ricordato a tutti noi che le scorciatoie sono spesso insidiose.

Detto questo, la vicenda dell'Arena municipale data in cessione per un happening filo-Afewerki mentre si contano i cadaveri dei rifugiati eritrei per soffocamento, dimostra per lo meno due cose. La prima è che l'asilo è un diritto residuale, calpestato e svuotato di efficacia. La seconda è che dovrebbe essere considerato un “bene” universale, centrale, non solo perché la necessità di protezione è reversibile e può toccare tutti noi, ma soprattutto perché attraverso chi lotta per ottenere asilo, se lo vogliamo, possiamo leggere la storia e il nostro presente in mutazione: grazie alle persone che cercano rifugio nelle nostre città si materializza una relazione diretta tra la dimensione locale e quella globale, tra il territorio e il mondo. Bologna confina con Asmara, con Aleppo, con Mogadiscio. Non è certo poca cosa.

Il comunicato di TPO e ass Ya Basta sulle mobilitazioni contro il Festival Eritrea-Bologna