Le cupe vampe del Mediterraneo

Uno studio del 2017 aveva pronosticato un sensibile aumento degli incendi nell'area mediterranea, legato alla crisi climatica

13 / 8 / 2021

Gli incendi sono un triste novità delle estati: da tempo, tra le notizie più gettonate sotto all’ombrellone, ci sono quelle di intere aree boschive che prendono fuoco, montagne che bruciano, fiamme che si propagano a ridosso di centri abitati e talvolta anche di località balneari. Un fenomeno al quale le nostre sensazioni si sono drammaticamente abituate; e purtroppo anche quelle delle istituzioni, che hanno dato al fenomeno un carattere quasi routinario disinvestendo sia nella prevenzione che nei piani di contenimento del fuoco. Non a caso il premier Draghi ha annunciato ieri un piano straordinario di interventi, in piena continuità con quella governance delle calamità che altro non è se non la versione italiana dello shock capitalism.

I danni sono sempre ingenti, talvolta incalcolabili quando ad essere attaccate sono aree protette e parchi naturali, come sta accadendo in questi giorni al Parco Regionale delle Madonie, nella Sicilia nord-occidentale, e a quello Nazionale dell’Aspromonte, nella Calabria centrale (per rendere l’idea, stanno bruciando in queste ore la Foresta di Acatti e la Valle Infernale, di recente diventate patrimonio UNESCO). Per non parlare delle migliaia di animali uccisi e lasciati in putrefazione.

Ma quello che sta succedendo da diverse settimane in quasi tutta l’Europa meridionale ha  qualcosa di inedito, perché somma – o meglio dire, intreccia – diversi fattori critici. In primo luogo quello climatico-ambientale, il cui quadro globale dai tratti quasi nefasti è stato tracciato alcuni giorni fa dalla pubblicazione del primo gruppo di lavoro dell’IPCC, che si inserisce all’interno degli studi per il Sesto rapporto, che varrà completato nel 2022.

Da diversi anni l’area mediterranea è oggetto di studi approfonditi proprio per quel che riguarda la relazione tra crisi climatica, inasprimento delle condizioni di siccità e aumento degli incendi. In particolare, uno studio fatto nel 2017 dall’Istituto di Geoscienze e Georisorse (IGG) in collaborazione con le Università di Barcellona, Lisbona e Irvine (California) aveva pronosticato per gli anni successivi un sensibile aumento degli incendi, sia in termini di intensità, che in termini di diffusione e capillarità.

Se si prende in esame la mappa degli incendi di questa tremenda estate è facile dare ragione a questo studio, essendo l’intero euro-mediterraneo – dall’Italia alla Grecia, dalla Spagna alla Turchia – coperto da roghi altamente estesi e distruttivi. Le immagini apocalittiche provenienti dalla Grecia - dove si è arrivati al record di 100 mila ettari bruciati in due settimane, con migliaia di sfollati e decine di abitazioni briciate – si sommano alle fiamme divampate nei quartieri periferici di Catania o quelle del nord-est della Spagna rimasto senza corrente elettrica per oltre 24 ore.

Ma quello che rende la situazione ancora più drammatica è l’impatto sociale ed economico che ci sarà in ampie porzioni di territori, spesso a vocazione agricola o turistica. 

La distruzione degli habitat naturali e la mutazione repentina degli equilibri ecosistemici hanno sempre una relazione diretta con gli interessi delle classi dominanti: quando si parla di “regime socio-ecologico” non si intende qualcosa di astratto, ma di estremamente visibile e territorializzato. In particolare la questione degli incendi si inserisce in un substrato economico-culturale in cui la devastazione delle fiamme è spesso correlata ad attività dolose, funzionali alla speculazione edilizia, all’agro-business o all’industria del legno. 

«L’ho visto da vicino, il drago deprimente. Sgattaiolava dietro le sterpaglie infuocate, sguazzava nella soffocante coltre di fumo che per le narici sue diventa ossigeno prezioso. Soffiava sulle fiamme, le coccolava per alimentarle» scriveva Claudio Dionesalvi a proposito di alcuni incendi che avevano interessato il crotonese nell’estate 2017.

Ed è proprio in questa logica - di chi al tempo stesso l’emergenza la produce, gestisce e se ne giova – che gli incendi rappresentano il paradigma perfetto della crisi climatica. A maggior ragione oggi, in una situazione di crisi e incertezza in cui dilagano le attività criminose, rischiamo di assistere a spossessamenti ancora più violenti ed economie territoriali completamente plagiate dagli interessi dei più forti e prepotenti. La crisi climatica è quell’humus in grado di creare le condizioni ideali per tutto questo.

E intanto il deserto continua ad avanzare, con le sue cupe vampe e quella coltre di fuliggine da cui emergono solo carcasse e miseria.