Lavoro e ambiente, l’incontro tra i due «grandi sfruttati»

23 / 1 / 2011

Intorno al workshop «Democrazia e beni comuni: tra crisi ecologica e riconversione produttiva per un nuovo modello di sviluppo» si è articolata a Marghera una ricca discussione che ha tratto spunto da due relazioni introduttive affidate a Beppe Caccia e Guido Viale.

I lavori hanno prodotto un’ottima sintesi nella dialettica fra la dimensione teorica e quella pratica del percorso che sui beni comuni si sta compiendo in Italia. La principale novità politica emersa a Marghera si riscontra nel superamento dello storico conflitto fra ambientalismo e movimento sindacale, un conflitto che da almeno trent’anni ha impedito alla ricetta rosso-verde di conquistare un’egemonia politica. Infatti, a partire dai primi classici dell’ambientalismo militante, basti pensare alla «Primavera Silenziosa» di Raquel Carson , la convivenza in occidente fra le esigenze del lavoro e quelle dell’ambiente è stata piuttosto difficile.

Nel discorso dominante, le esigenze della tutela ambientale sono interpretate come limitative dell’attività di impresa, sicché in un paradigma che pone al centro la crescita quantitativa, il lavoro non poteva che schierarsi con quest’ultima propro contro l’ambiente.

Le trasformazioni globali dei processi produttivi sembrano strutturare a livello globale proprio quel conflitto, nella misura in cui il capitale, nella sua corsa amargini di profitto sempre più alti sceglie come luoghi dell’investimento proprio quelle piazze in cui la protezione ambientale è più debole.

Con l’emigrazione del capitale cresce il tasso di disoccupazione e cresce quindi, anche al centro ed in semiperiferia, la pressione per ridurre i limiti allo sfruttamento della natura e del lavoro.

In Italia la consapevolezza di questa dinamica è stata acquisita con brutalità inusitata proprio a partire dalla ristrutturazione del rapporto fra capitale elavoro tentata dalla Fiat a Pomigliano e poi a Mirafiori. Forse inaspettatamente questo drammatico episodio, oltre a produrre un appiattimento dei sindacati collaborazionisti sulla visione egemonica dominante ha prodotto un fenomeno controegemonico nella decisione della Fiom di resistere intorno alla piattaforma del lavoro come «bene comune».

Ed è stata dunque proprio questa nuova fondamentale nozione teorica, ancora nebulosa nei suoi contorni, ma già capace di fondare un discorso ed un linguaggio comune alle più diverse esperienze di lotta, ad aver creato il terreno di incontro fra lavoro ed ambiente, i due «grandi sfruttati» del modello di sviluppo dominante.

I beni comuni, infatti, non sono mera categoria merceologica ma momenti concreti di consapevolezza politica capace di emergere soltanto nella lotta. Una lotta appunto volta al raggiungimento di un nuovo modello di sviluppo, capace di marginalizzare la dimensione avidamente quantitativa a favore di una visione qualitativa fondata sulla giustizia ecologica e sulle necessità di riconversione tanto produttiva quanto, soprattutto, culturale.

Infatti, sebbene il modello di sviluppo globale dominante continui a essere proposto con protervia irresponsabile attraverso tutto l’occidente (ed imposto al Sud), è oggi chiaro alle avanguardie di tutto il mondo che ad esso bisogna far dichiarare fallimento per la salvezza stessa del nostro pianeta. Per farlo, occorre tuttavia che la riconversione del nostro modello di sviluppo, fondata sulla centralità dei beni comuni, sia capace di raggiungere egemonia a livello globale, trasformandosi in una nuova ideologia, fondata sull’emancipazione dell’ecologia dall’economia.

Una sfida epocale, drammaticamente urgente, che richiede la capacità di ridurre ad unità e porre in comunicazione fra loro l’insieme variegatissimo delle pratiche di coloro che lottano per un mondo più bello e più giusto. A Marghera tale processo di recupero dell’egemonia sembra essere partito con il piede giusto.