"In Italia il vero problema non è il costo del lavoro": un grossolano errore di analisi.

Lavoro bene comune?

reddito, diritto materiale negato

29 / 5 / 2013

LAVORO BENE COMUNE?

“Adesso Basta! Non possiamo più aspettare.” Questo è stato il refrain della manifestazione promossa dalla Fiom lo scorso 18 maggio a  Roma, un corteo sindacale a cui ha partecipato, in sordina, il residuo della sinistra partitica con i new entry del M5S ma disertato dalla sinistra sociale, dai movimenti che negli ultimi 2 anni hanno sostenuto con forza e partecipato direttamente alle iniziative del sindacato dei metalmeccanici italiani.

Non è il riflesso pubblico di un divorzio scaturito in qualche oscuro conciliabolo ma la registrazione di una impermeabilità politica e concettuale della Fiom, pur restando il sindacato più aperto al divenire dei movimenti: ci si parla, ci si ascolta, ci si può anche accordare su singoli punti ma l’impianto – tutto ideologico – lavorista rimane saldo nelle menti e nella pratica  tanto da portare ad un drammatico immobilismo di prospettiva per il movimento sindacale e la società intera.

Non abbiamo la presunzione di avere la soluzione in tasca per svoltare dalla deriva autoritaria e predatoria che ha assunto la governance e il comando capitalistico in questa fase di crisi permanente e strutturale ma non possiamo sottacere quelle distorsioni del reale che – a lungo andare – rendono, a tutti, impraticabile un terreno del conflitto, che possa spostare positivamente i rapporti sociali e produttivi, in Italia, in Europa.

"In Italia il vero problema non è il costo del lavoro ma il fatto che se non investi, se non fai nuovi prodotti, continuerai a perdere sempre quote di mercato. E questo vale per la Fiat ma anche per la siderurga e per tutti i settori". Così ha arringato, il leader Fiom, Maurizio Landini, il 18 maggio, dal palco della manifestazione di Piazza S. Giovanni: ancora una volta, non sarà l’ultima, purtroppo. E giù tutti i presenti a spellarsi le mani.

Un grossolano errore di analisi, di sintesi e di prospettiva, della cui buona fede non dubitiamo ma che una cazzata resta.

Come si può immaginare che la delocalizzazione produttiva possa rientrare in Italia, in Eurolandia dall’Est europeo, dal Far est asiatico, dai paesi denominati BRICS; come si può pensare che le migliaia di piccole imprese manifatturiere nostrane, frutto del decentramento produttivo e dell’autovalorizzazione operia, possano competere con i produttori cinesi e indiani; come si può affermare che “il vero problema non è il costo del lavoro” quando, anche il più distratto sindacalista, sa bene che in questi ultimi 15 anni non si è fatto altro che aumentare l’intensità e il tempo di lavoro, erodendo parallelamente il potere di acquisto dei salari e stipendi, rastrellando e riducendo il reddito socialmente disponibile?!!!

Riportiamo qui di seguito alcuni stringatissimi dati, riguardanti le produzioni settoriali e l’occupazione forniti dall’ISTAT.

Gli indici corretti per gli effetti di calendario registrano, a marzo 2013, una crescita tendenziale per il solo comparto dell'energia (+2,2%); significative flessioni si rilevano, invece, per i raggruppamenti dei beni strumentali (-8,0%), dei beni intermedi (-6,5%) e dei beni di consumo (-4,5%). Nel confronto tendenziale, a marzo 2013, i settori in crescita sono quelli della fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria (+6,3%), della produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (+3,4%) e della fabbricazione di apparecchiature elettriche e apparecchiature per uso domestico non elettriche (+1,8%). Il settore che, in termini tendenziali, registra in marzo la più ampia variazione negativa è quello dell'attività estrattiva (-16,0%).

Tra il 1977 e il 2012 il numero medio annuo di occupati è passato da 19 milioni 511 mila a 22 milioni 899 mila. L'incremento occupazionale complessivo ha beneficiato in misura determinante della crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro. Il numero di donne occupate è aumentato da 6 milioni 150 mila a 9 milioni 458 mila, con un'incidenza sul totale degli occupati che è salita dal 31,5% al 41,3%. L'andamento del tasso di occupazione negli anni si è articolato in diverse fasi: tra il 1977 e il 1980 risulta in crescita; seguono cinque anni di calo, nel corso dei quali il tasso di occupazione scende dal 54,6% al 53,3%; in moderato aumento tra il 1986 e il 1991 e di nuovo in forte riduzione ― dal 54,9% al 52,5% ― nei quattro anni successivi; in aumento tra il 1996 e il 2008 (dal 52,9% al 58,7%) e ancora in discesa fino a toccare il 56,8% nel 2012. Il numero di disoccupati è cresciuto da 1 milione 340 mila del 1977 a 2 milioni 744 mila del 2012. L'incremento ha interessato sia la componente maschile (+863 mila) sia quella femminile (+541 mila). Fasi alterne di crescita e di contrazione hanno caratterizzato anche il tasso di disoccupazione. Tra il 1977 e il 1987 il tasso è aumentato di 3,9 punti percentuali (dal 6,4% al 10,3%), mentre nei successivi quattro anni è stato registrato un calo fino all'8,6%. Dal 1991 al 1998 il tasso è tornato a crescere raggiungendo l'11,3% per poi calare nei successivi dieci anni toccando il valore minimo del 6,1% nel 2007. Dal 2008 il tasso è salito fino a portarsi al 10,7% del 2012. Il numero di inattivi tra i 15 e i 64 anni è diminuito di circa 600 mila individui negli ultimi 35 anni, passando da quasi 15 milioni a 14 milioni 386 mila. Tale calo è sintesi della crescita della componente maschile, che è passata da 3 milioni 820 mila a 5 milioni 140 mila, più che compensata dalla diminuzione della componente femminile. Il tasso di inattività è sceso dal 42,5% del 1977 al 36,3% del 2012.

Nell'ultimo anno il tasso di disoccupazione dell'Unione europea è salito dal 10,3% al 10,9%, nell'Eurozona dal 11% al 12,1%: il più alto mai registrato nella pur breve storia della moneta unica. Con punte che vanno dal 27,2% della Grecia (1,35 milioni di persone) e 26,7% della Spagna (6,2 milioni di persone) al 4,7% dell'Austria e 5,4% della Germania (2,9 milioni di persone), si calcolano in circa 30 milioni gli attuali disoccupati in Europa. Possiamo, ancora, illuderci e alludere alla piena occupazione, magari sperando in una svolta Keynesiana del nuovo governo, della leadership europea: i dati che emergono e le scelte di politica economica intraprese vanno da tutt’altra parte. Dunque?

Lo slogan "Adesso Basta! Non possiamo più aspettare"dobbiamo praticarlo, fattivamente, noi tutti.
È necessario mettere il ‘basic income’ [ usiamo la dizione classica inglese, reddito essenziale, per evitare i fraintendimenti e le mille elucubrazioni rimaste inutile teoria ] alla base delle rivendicazioni sociali, quale parola d’ordine unificante e trasversale della frammentazione produttiva, della molecolarità del lavoro e dei lavori, dall’ILVA ai Call Center, dal giovane disoccupato al vecchio cassaintegrato, dai lavoratori ai pensionati.

Dove sta la novità!?? Già visto questo film!!! Ci possono dire in molti.
Infatti non vi è alcuna particolare invenzione se non nella possibile determinazione di spendersi con tutte le forze di cui siamo capaci, senza impastoiarci o farci irretire da aperture o tentennamenti, per questa rivendicazione sociale, per questo obiettivo. Per questo sarebbe utile lavorare, con tutti coloro che ci stanno, che vogliono provarci, a promuovere un percorso di incontri, di iniziative che siano il presupposto per una discesa in campo moltitudinaria su questo, ormai irrinunciabile, diritto materiale negato.
E, ricordiamocelo, quando si pone all’ordine del giorno del conflitto sociale una rivendicazione per farla assurgere a diritto soggettivo del cittadino, così come il diritto alla salute o all’istruzione, si intende negare qualsiasi uso strumentale e/o soggettivista e offrirsi come interlocutore per costruire una piattaforma di lotta, una coalizione di scopo aperta e plurale, tutta da definire. Una proposta, una piattaforma che potrebbe assumere un respiro europeo, perché il diritto ad una vita dignitosa è patrimonio di civiltà per tutti i cittadini - così come già lo sancisce sulla carta tanto la vecchia Costituzione italiana quanto quella europea - deve, finalmente, divenire un bene comune, costituito e materiale.
Mentre il lavoro, ci perdonino tutti i lavoristi nazionali ed europei, così, come fino ad ora lo abbiamo conosciuto e praticato, gonfio di fatica e di sfruttamento, come bene comune proprio non lo sentiamo, e non riusciamo a capacitarci come altri lo possano dire.


Beppi Zambon - ADLcobas

Gallery