L'Aquila positiva per chi?

11 / 7 / 2009

Il G8 milleusi

Anche su questo G8 è calato il sipario. E mai definizione è stata tanto realistica come questa che richiama al mondo dello spettacolo. L’incontro degli otto grandi è stato, come sempre, innanzitutto questo: un grande cinema. 

Ma la proiezione simbolica occupa un posto troppo importante nella costruzione del comando nella società dei simboli e della comunicazione, per fermarsi banalmente a questo aspetto ricorrente dei grandi vertici. Lo spettacolo di questa volta, nel pieno rispetto del salto tecnologico dell’epoca nuova, è stato 2.0. Un “iperfilm” in cui il tycoon nostrano aveva il compito, assolto a quanto pare, di costruire l’involucro luccicante in cui trame e finali diversi potessero essere contenuti.

Una scatola vuota, ha detto qualche commentatore straniero, sbagliando a mio avviso aggettivo. La scatola era piena di diversi significati, trame e finali, come un moderno master per mash up televisivi da cui ricavare una varietà molteplice di prodotti. Il G8 è morto all’Aquila, ma per chi vuole, ad esempio per l’Italia che era il paese ospitante e presidente di turno, è stato il migliore. E’ morto perché non ha alcun significato plausibile parlare di governo del mondo senza Cina, India e Brasile. Ma anche perché, a differenza dell’epoca passata, quella della potenza della globalizzazione, il solo pensiero di “governare” la crisi globale, atterrisce i governi, non li esalta.

Chi impone a chi regole sul clima, sul nucleare, sulla finanza, e sulla base di quale rapporto di forza? Sembra invece, e il grande interesse per l’Africa di Obama e dell’amministrazione americana lo testimonia, che ci sia bisogno di una nuova “accumulazione originaria” di potere ( ed economica ) che permetta a qualcuno di giocarsi carte nuove in una mano che altrimenti ristagna su un equilibrio determinato dalla debolezza di ognuno piuttosto che sulla forza – guida degli usa.

L’Africa, e non quella degli aiuti che non hanno mai contato assolutamente nulla, meno che meno sulle vite di milioni di persone che lì nascono e muoiono sempre in miseria, ma quella delle materie prime ( primo fra tutti il carbone, alla faccia della Green Economy ), della terra, intesa come grandi spazi coltivabili intensivamente (un milione di contadini cinesi sono già in viaggio per le nuove colonie acquistate dalla madre patria nel continente nero), del possesso delle fonti d’acqua e di manodopera a basso costo, è un obiettivo di conquista fondamentale per chiunque tra le potenze mondiali aspiri ad avere qualcosa di nuovo da scambiare con altri per il controllo del pianeta.

Fallimento o successo, categorie sbagliate

Il G8 della crisi, dice l’Herald Tribune, è stato un completo fallimento. Il Corriere con Panebianco invece, dice che è un successo. Appunto, un mash up da cui ognuno può ricavare, frame su frame, l’immagine che più gli serve. In Cina si dirà che il G8 semplicemente non c’è stato.

In Brasile che le potenze occidentali hanno riconosciuto l’importanza dell’allargamento, in India si starà parlando d’altro. Anche la pretesa di vedere concentrata l’attenzione dei capitalisti su quest’unica tre giorni, è mera illusione. Da tutto questo noi possiamo evincere due cose: la prima è che la crisi si conferma come dato epocale, storico, e nonostante il suo carattere altalenante che non ha reso catastrofici gli effetti per l’assetto strutturale del sistema, essa non consente nessuna pianificazione nemmeno a medio termine dei dispostivi economico politici del comando, Come se il tema ora, fosse quello di “galleggiare”, di non annegare, più che pensare a nuotare.

La seconda è che la vera guerra del sistema capitalistico è quella che si gioca contro chiunque volesse utilizzare questa crisi per aumentare le dosi di libertà, democrazia, indipendenza dei soggetti sociali. E’ indubbio infatti che proprio all’interno delle contraddizioni evidenti prodotte dal crash finanziario e dalla recessione globale, si annidano dei grandi punti di rottura potenziali per il meccanismo che mantiene il mondo come sappiamo.

L’unanimità

Ma su questo, sull’intervenire per tamponare le falle che potrebbero far uscire nuove energie per un’alternativa di vita possibile, sono tutti concordi.  Come spiegarsi se no la vergognosa posizione unanime sull’Iran, che ha sepolto con le macerie dell’Aquila le coraggiose e tragiche lotte per la democrazia, per la libertà, che hanno riempito le strade e le piazze, e oggi, grazie alla complicità certificata del G8 con il regime, ancor più le carceri di quel paese? Come leggere l’aumento del tasso di guerra in Afghanistan, nonostante le promesse di Obama? Come non vedere la vergognosa accondiscendenza verso la Cina, un paese dove la gente muore a centinaia e a migliaia per gli scioperi, le rivolte, la resistenza contro il potere unico, assoluto e di mercato?

Ma se queste sono diciamo le evidenze sull’hardware del sistema, pensiamo a quelle avanzate, legate al software. Dov’è la Green Economy, al G8? Dove sono le fonti di energia rinnovabile e soprattutto la discussione sulla rete distributiva, sulla necessità di orizzontarizzarla per rispondere alla richiesta di autoproduzione diffusa?

I movimenti, le iniziative diffuse e l’Aquila: apriamo il dibattito

Ma il G8 a noi interessa ovviamente anche per ciò che riguarda i movimenti che a questo meccanismo si oppongono, o che nascono proprio a partire dalla necessità di contrastare le movenze capitalistiche globali.

Se diciamo che un’epoca è finita, quella che ci ha portato a sfidare nel 2001 a Genova i potenti del mondo, questo vale, deve valere, anche per i movimenti, e i paradigmi attorno a cui essi si costituivano, allora. Si può pensare ad un mondo che è cambiato, e a un movimento, quello cosidetto noglobal, che rimane sempre uguale a sé stesso?  Significherebbe teorizzare l’astrattezza delle dinamiche che l’hanno allora reso possibile, e quindi celebrarne la sua trasformazione in una istituzione, o peggio, in una religione.

Ma qualcuno sembra non averlo compreso, a mio avviso. Nell’affrontare questo G8, giustamente preso comunemente come occasione importante di verifica ed indicazione, di ricerca ed espressione per i percorsi di movimento, le traiettorie soggettive sono state almeno un paio: chi ha cercato di muoversi assumendo fino in fondo il dato della fine dell’epoca di Genova, dei social forum globali, della globalizzazione neoliberista vincente come sfondo, e chi invece ha tentato di riproporre, pari pari, schemi e metodologie del passato. Per i primi la diffusione territoriale di iniziative era il modo di rispondere alla situazione creata dalla collocazione “nella catastrofe” del G8. L’unica maniera di affrontarlo lì, a l’Aquila, il vertice era quella di costruire localmente un minimo di risposta sociale di coloro che sono stati usati come comparse invisibili, i terremotati, e che oggi sono al centro di un esperimento di shock economy senza precedenti in Italia. Non è stato facile di certo, ma quello che si è determinato è importante, e forse più per il dopo. L’altro dato evidente della diffusione di iniziative è quello che riguarda il radicamento territoriale.

Ove questo aspetto non rende sola ed isolata una soggettività organizzata, ma la mantiene invece interna ad un processo reale di comunità, i fatti accadono e sono molto significativi. Vicenza ne è un esempio straordinario, come Ancona con le iniziative al porto, ma anche altre mobilitazioni e azioni da Torino a Napoli, che hanno insieme raccolto anche in termini di numeri dieci volte di più della manifestazione dell’Aquila. All’Aquila invece, questa è la mia opinione, vi è stata una sfilata del partito dei noglobal, non del movimento, e la composizione delle tremila persone che hanno sfilato per sette chilometri lo conferma. Un partito, uso questo termine in maniera provocatoria, che trova la sua identità nella riproposizione della coppia “noglobal/bandiere rosse”, e che ha fatto, ma questo da molto tempo, già da Genova, della rappresentanza “globale” il suo obiettivo.

Non capisco veramente dove stia la positività, a parte per i Cobas di Bernocchi che vivono da sempre tra uno sciopero in italia e un viaggio all’estero a qualche social forum mondiale, nell’iniziativa svolta all’Aquila. Cosa determina di positivo per lo sviluppo dei movimenti, della conflittualità sociale dentro la crisi?

Io credo che al di là delle intenzioni del patto di base, mentre invece mi è chiaro l’obiettivo di Rifondazione Comunista di Ferrero, che come partito che deve andare alle elezioni dovrà pur farsi vedere in giro con i suoi rappresentanti, i suoi simboli, i suoi militanti, proprio l’Aquila sia stata frutto di una lettura sballata, che non ha minimamente tenuto conto della necessità oggi di rideterminare nuovi percorsi di movimento su presupposti che nascono dentro quest’epoca, e non tentano di riproporre ritualmente ciò che è già stato. Il clima sociale su cui ci troviamo a muoverci, in questo primo anno di crisi, è pessimo. Questo a dimostrare che l’equazione crisi=rivolta è sbagliata completamente. Per ora la crisi ha prodotto individualismo come ricerca di protezione, razzismo come recupero di posizioni di sicurezza del reddito, subordinazione al potere come rifugio.

E’ a partire da questo che dobbiamo, obbligati, muoverci. Ma l’Aquila somigliava anche a qualcos’altro, anch’esso già morto e sepolto dal tempo: la battaglia politica interna alle sinistre, che presuppone un popolo della sinistra da orientare, conquistare o convincere. Io credo che questo sia un altro grande errore, ed è tipico di chi pensa al movimento no global che fu come a qualcosa buono per tutte le stagioni. Il popolo della sinistra si è dissolto con essa, consumando definitivamente la crisi della rappresentanza.

A destra essa ha significato la costruzione di ipotesi di nuova rappresentanza fondata sull’ideologia del capo, duce, padrone, conducator, un pò Mussolini, un po’ Bonaparte, esponendola però a tutte le debolezze oltre che ai fasti di una compagine fondata sulla personalità di uno. A sinistra questo processo di crisi della rappresentanza ha determinato la sua sparizione, e uno dei nodi è stato proprio il fallimento dell’idea bertinottiana del rapporto lineare tra governo e movimento. Proprio il movimento di Genova ha permesso alla sinistra di allungare l’agonia, determinata da una incapacità strutturale di leggere i processi di trasformazione sociale e dall’irriducibile rinuncia a qualsiasi rivoluzione, anche quelle per i diritti civili o per la democrazia. Il movimento no global, in quel contesto si determinava anche come capacità di polarizzazione delle soggettività, di quel popolo, che si dibatteva dentro quelle contraddizioni. Oggi è tutta un’altra storia e se ogni movimento ha bisogno di attraversare un popolo, bè bisogna prima che se lo inventi perché attualmente di disponibili non ce ne sono.

Quanto meglio avrebbero fatto i sindacati di base, come le RdB, a portare all’Aquila migliaia di Vigili del Fuoco, o i Cobas migliaia di insegnanti, ma proprio qualificando l’iniziativa come tale e non come la riedizione del Pride dei No global…Credo che il dibattito sia giustamente aperto, perché ricette definitive non le ha nessuno.

Però alcune indicazioni, liberi come siamo per fortuna da obblighi politici, dobbiamo provare a ricavarle da ciò che sperimentiamo. E che il prossimo G qualcosa sia occasione di rivolta sociale, ce lo auguriamo tutti.