L'alternativa in movimento

di Luca Casarini

2 / 10 / 2011

Sabato 24 settembre, all'ex cinema Palazzo occupato a Roma, una assemblea gremita ha sancito l’avvio di un nuova realtà, uno “spazio pubblico e politico di movimento” come è stato definito, che si chiama Uniti per l’alternativa. Può risultare interessante, nel dibattito in corso a sinistra, concentrarsi su alcuni aspetti che caratterizzano quanto è avvenuto. Innanzitutto l’origine dalla quale si giunge a questo approdo: uniti contro la crisi, e in buona sostanza le lotte e le mobilitazioni dello scorso anno, dal 16 ottobre con la Fiom al 14 dicembre con il movimento degli studenti. E’ un’origine “vicina” dunque, che non cerca verità storiche nella tradizione di alcuno. E’ la crisi, con i suoi passaggi repentini ed epocali dei nostri giorni, a costituire la memoria attiva, quella che si utilizza continuamente nell’elaborazione e nell’azione politica dell’oggi.

Una caratteristica non di poco conto, poiché invece, in tempi nei quali “tutto è nuovo e sconosciuto” davanti a noi, si rischia sempre di tornare indietro, schizofrenicamente, e pensare di dover agire come cent’anni fa, per affrontare il nuovo con ciò che nemmeno allora, ha mai funzionato. E’ un discorso questo sul rapporto tra memoria attiva e accumulo di esperienza/tradizione, tra l’oggi e il passato, per niente scontato. Dalle chiacchere da salotto sul comunismo e l’insurrezione (sempre fatta da altri) da una parte, alla riproposizione dell’Ulivo dall’altra, risulta evidente che il pensiero politico nelle sue varie articolazioni e ancora in circolazione, non proviene quasi mai dalla “memoria attiva”, ma è capace solo di attingere alla memoria di massa, alla stratificazione delle proprie tradizioni storiche. In sostanza, per dirla facile, è un pensiero che nasconde tra le sue pieghe la sconfitta, che è fatto per alimentare la tradizione e non la rivoluzione o il cambiamento sociale.

Uniti per l’alternativa, anche nel nome, rivela la scelta di un passaggio di fase. Dalla crisi, dal suo disvelamento come salto di epoca e nuovo paradigma alla base delle movenze del capitalismo contemporaneo, è nata l’esperienza precedente di uniti contro la crisi. Ad un anno di distanza da quel nuovo inizio, che ha portato con sé anche un modo di praticare e pensare all’unità come ricomposizione tra soggetti diversi e tra storie diverse su obi, il focus si sposta sull’alternativa. Se la crisi poneva a tutti il problema di ripensare alla ricomposizione come terreno della produzione del “comune”, l’alternativa affronta oggi il tema dell’uscita dalla crisi dal punto di vista di una nuova idea di società. Si potrebbe dire che l’alternativa disegni il mondo guardandolo dal basso a sinistra, ma per orientarsi basta osservare come la sua direzione sia opposta a quella del neoliberismo, delle rendite, della finanza, del sistema energivoro e inquinante, dello sviluppo fondato sull’esclusione e sulla diseguaglianza sociale. Il termine “alternativa” è certamente abusato, ma consideriamo che ciò è anche il frutto di un potenziale egemonico del concetto che nel sentire comune inizia a farsi strada: nella composizione sociale italiana ed europea, l’ipotesi che sia il “sistema” da cambiare, e non la vita di milioni di persone che debbono solo abituarsi a stare peggio, non è più relegata alle disquisizioni di piccole elites o gruppetti. Il termine, c’è da scommetterci, prolifererà a tal punto nella propaganda e nel marketing politico, da rischiare che divenga sinonimo di niente, un “non significato”. L’unico antidoto è ancorarlo ad un pensiero e ad una pratica, facendo attenzione alla sua doppia anima: l’alternativa è allo stesso tempo un orizzonte, un processo complesso di trasformazione della società, e anche un programma minimo concreto, semplice da cogliere e da capire. In questo senso e per queste sue caratteristiche, l’alternativa non può che contenere simultaneamente i “due tempi”, la transizione e la realizzazione, l’orizzonte in generale e la concretezza dei passaggi che si susseguono. Il “tutto e subito” di antica memoria torna alla ribalta ma con un altro significato: l’alternativa deve saper contenere tutto questo da subito.

Non sembrino cose banali, ma l’alternativa è anche capacità di nuova narrazione, di produzione collettiva di una idea del mondo nuovo che ha a che fare con la cultura, la conoscenza, le relazioni, i sentimenti, le passioni. Ma se questo non si traduce anche in obiettivi concreti da raggiungere oggi, dentro la crisi e contro la crisi, non può che svanire nell’evanescenza dei meta luoghi, e sfracellarsi nella tristezza di quella che, nobilmente, un tempo veniva definita l’autonomia del politico e oggi si traduce nella doppiezza etica, morale, tattica, opportunistica della politica nella non democrazia. Insomma bisognerebbe essere capaci, per essere alternativi, di non rinunciare ad un grande sogno, quello di una società più giusta per tutti, ma anche di dirsi la verità: condividere cioè ciò che si ritiene possibile fare e ciò a cui invece non si crede, ciò che si vuole fare e poi farlo veramente, accettando anche che non tutto funzioni e quindi .

Uniti per l’alternativa è “uno spazio pubblico e politico di movimento”. Questo perché parte dalla convinzione che l’alternativa appunto, si potrà realizzare solo e solamente con la movimentazione della società intera. Cioè se si innesca un grande processo di partecipazione e protagonismo di milioni di persone che conquistino il cambiamento. Il riferimento è a quel popolo dei referendum che troppo poco purtroppo è stato valorizzato come anomalia politica e vera novità sociale di questo anno della crisi. Ci si è persi piuttosto a capire chi deve rappresentarlo, tra i comitati, i forum e i partiti, senza capire che proprio per le caratteristiche da movimento, da tsunami trasversale che è stato capace di stravolgere appartenenze e schieramenti, quel popolo è irrappresentabile, se non dentro una più grande e coinvolgente ondata di partecipazione sociale per un grande obiettivo comune. E’ormai chiaro a tutti infatti, che le battaglie per i diritti che ogni singola parte conduce per tentare di arginare la rapacità della rapina di risorse pubbliche, beni comuni e welfare da parte delle banche centrali e degli hedge found, riguardano la democrazia nel suo complesso. E risulta altrettanto chiaro che quel campo di battaglia investe direttamente il terreno della sovranità. Cose sulle quali si fondano società, si scrivono costituzioni, non vertenze, contratti o delibere semplicemente.

Ma se i movimenti nella crisi e per l’alternativa debbono possedere nuove qualità, che siano l’espressione di una grande disponibilità a cercare con altri, a perseguire l’unità non come sommatoria di posizioni per delineare il recinto entro il quale ognuno possa trovare il suo inutile angolino del posizionamento politico, ma invece come irrinunciabile aspetto della movimentazione di società che può permettere il cambiamento, allo stesso tempo coloro che dentro il quadro della rappresentanza nella crisi della democrazia si muovono, e intendono farlo da anomalie, “per sparigliare le carte”, debbono anch’essi avere un profilo nuovo, che non ha a che fare né con il minoritarismo, ma nemmeno con la riedizione di esperienze, disastrose peraltro, del passato. La creazione di spazi pubblici e politici che discutano sul programma dell’alternativa, che costruiscano condivisione delle scelte e che superino quindi l’esclusività dei tavoli tra gruppi dirigenti, sarebbe già un primo passo. Poi nel concreto bisognerebbe fare quello che si dice: poche cose ma sulle quali nessuna opportunità di governo dovrebbe avere la meglio: i referendum ne hanno indicate alcune, le altre le conosciamo tutti. In fondo basterebbe dichiarare che ci si candida per respingere al mittente quelle letterine che giungono da Bruxelles, e che tanto piacciono ai dirigenti del solito, immutabile, noioso centrosinistra italiano.