Sanità in Veneto, numeri alla mano, per i medici definirsi abortisti significa compromettersi pesantemente la carriera

L’aborto torna clandestino

Intervista alla ginecologa Pervinca Rizzo.

14 / 4 / 2010

Altro che Ru486! Ce lo diciamo o no, che l’aborto è praticamente ritornato nella clandestinità? Basta dare un’occhiata alle percentuali di obiettori presenti nei reparti di ginecologia del Veneto, per rendercene conto.

Vediamo qualche numero.

Usl 1 Belluno: 8 ginecologi, tutti obiettori.

Usl 3 Bassano: 11 obiettori su 14 ginecologi.

Usl 9 Treviso: 14 su 15.

Azienda ospedaliera di Padova 15 obiettori su 18.

A Venezia, Usl 12, troviamo la percentuale più favorevole: solo 6 su 8. A

Verona, Usl 20, sono tutti obiettori.

A Legnano, Usl 21, pure.

Chioggia, Usl 14, Adria, Usl 19, Vicenza,

Usl 6, stessa musica: tutti obiettori.

Come può in queste strutture una donna interrompere la gravidanza?

È costretta ad attendere che arrivi un medico esterno. Una volta alle settimana se va bene, una volta ogni 15 giorni se va male. In ogni caso, le liste d’attesa sono chilometriche, i tempi si allungano, ed il rischio di sforare i termini prescritti dalla legge sempre più concreto. Perché c’è una percentuale così alta di obiettori?

«Perché per un ginecologo assunto in una struttura ospedaliera pubblica dichiararsi obiettore significa soprattutto due cose: risparmiare lavoro e non compromettersi la carriera – commenta la dottoressa Pervinca Rizzo. Facciamoci caso: le percentuali più alte sono nelle Usl dove la Lega è più forte e le nomine, anche negli ospedali, sono tutte politiche. Dichiararsi abortista significa, per un ginecologo fresco di laurea, rinunciare a diventare un domani, primario e, quasi sicuramente finire tra quegli, diciamocelo pure, sfigati costretti a girare come trottole da un ospedale all’altro per fare il lavoro che gli anti abortisti si rifiutano di fare».

Pervinca Rizzo esercita nell’entroterra veneziano ed è quelle che potremmo definire una dottoressa da “combattimento”: ogni anno guida le “brigate mediche” dell’associazione Ya Basta in Chiapas, per portare aiuti e solidarietà nei pueblos zapatisti. Pervinca ha formato decine e decine di “promotoras de salud” (promotrici di salute), specie di infermiere volontarie indigene che si incaricano di diffondere pratiche contraccettive e nozioni sulla tutela della salute femminile nei villaggi più sperduti della selva Lacandona.

Ma torniamo in Italia. Cosa può fare una donna costretta ad interrompere la gravidanza, di fronte a tutte quelle difficoltà che le frappone proprio quella struttura pubblica che, al contrario, dovrebbe aiutarla? Se la donna in questione è di “razza caucasica” e ben provvista di soldi, si rivolge a qualche struttura privata, dove magari ritrova – ma in veste di paziente pagante – quel medico che nel pubblico si era dichiarato antiabortista. Ma se la donna ha i soldi contati o, peggio del peggio, è una migrante? «Semplicemente al consultorio non ci va – spiega Pervinca -. Con tutto lo straparlare di denunciare i clandestini che si è fatto, i migranti, pure quelli regolari hanno paura a rivolgersi alle strutture sanitarie pubbliche. Pure se i medici non possono denunciare nessuno per una evidente questione di segreto professionale, la paura rimane. Il risultato è che ogni etnia si è organizzata per conto suo. La clandestinità, la paura ha riportato in auge le mammane e i ferri da calza. D’aborto si torna a morire».

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