"La virtù dell'essere (dis)obbedienti"

Intorno al femminicidio, alle identità di genere e all'autodeterminazione

30 / 12 / 2012

Le parole e i manifesti di Don Corsi, oltre a toccare in modo ripugnante l'intera questione del femminicidio, danno la possibilità di fare un ragionamento allargato sul ruolo della morale al tempo della crisi, sui rapporti di potere tra i generi e sui dispositivi di controllo della vita. Penso che il femminicidio e la violenza sulle donne siano fatti e temi che riguardano tutt*, al di là di qualsiasi distinzione di genere, tanto più se inseriti all'interno di un'analisi biopolitica della realtà.

Le agghiaccianti prese di posizione del parroco rivelano, da una parte, una figura della donna-imputata, colpevole di aver una condotta morale trasgressiva e adescante, secondo un connubio tra natura e cultura per cui la donna immorale di oggi si atteggia in questo modo, ma del resto per natura sembra essere portata ad avere questi tratti (non scordiamoci di Eva che si prende la mela). Dall'altra parte, all'uomo viene affibbiato uno stereotipo di genere animalesco, che lo rende imprigionato dai suoi istinti, perché per natura non può fare a meno di soddisfare il desiderio di saltare addosso a qualsiasi donna in abiti succinti gli passi davanti.

Attraverso queste identità costruite le violenze e il femminicidio vengono ridotte a un fatto di pudore: è come se derivassero da un aspetto estetico, dal fatto che le donne non sanno essere pudiche e che gli uomini devono realizzare la loro essenza di dominatori. Insomma, alla fine anche gli uomini al massimo commetteranno un “oltraggio al pudore”, perché colpevoli (o vittime dell'adescamento femminile?) di intemperanza. Niente di più. E sembra che questo tipo di dialettica sia assolutamente necessaria, naturale, incontrovertibile. L'unico modo per impedirla è l'obbedienza del corpo femminile ad una norma che la assoggetta, facendo leva sulla sua sessualità: è proprio a partire da qui che il controllo del desiderio si estende su tutto l'ambito della vita, generando delle donne docili, magari angeli del focolare, mai pronte a rivendicare diritti e a riprendersi libertà. Il ragionamento potrebbe sembrare fuorviante, oppure azzardato, ma penso che all'interno di ogni discorso si nasconda un rapporto di potere che va al di là della sua enunciazione. In questo caso, per farlo totalmente emergere, basta andare sul sito di Pontifex (sic!) e vedere le interviste fatte a Monsignori vari sulla vicenda. La più esemplare è la risposta del vescovo di Grosseto, in cui dice esplicitamente che ai suoi tempi non c'erano violenze sulle donne, perché non si permettevano di uscire fuori di casa e godevano della loro segregazione tra le mansioni domestiche; non sono proprio concepite espressioni, prese di posizione femminili al di là della cura della casa. Ogni condizione sociale e relazionale è dettata da questi precetti che cancellano di fatto ogni protagonismo costituente delle libertà, rendendo l'obbedienza – qui in un caso limite - l'unica pratica possibile e sempre reiterata.

Allo stesso tempo, è bene soffermarsi anche sul biopotere che viene esercitato sul corpo maschile, sulla norma complementare a quella femminile. La mascolinità di questo tipo di discorso riproduce continuamente la gerarchia tra i generi, portando anche l'uomo ad essere obbediente ad un determinato assetto sociale: con le sue pratiche e con la produzione della sua identità fa in modo che in ogni circostanza, dalla vita privata fino al posto di lavoro, la differenza di genere sia un dispositivo di inclusione differenziale. Per gli uomini non è possibile fuoriuscire da questa identità, quindi devono in un qualche modo dimostrare anche loro obbedienza, altrimenti si diventa l' “altro” escluso.

Se da una parte l'idea arcaica dei funzionari religiosi mira a ricostruire una modello patriarcale delle relazioni, penso che esso non sia più paradigmatico, non esprime più in modo complessivo le gerarchie e le stratificazioni odierne, ma che nella nostra cultura sussiste e in taluni casi co-esiste con una pluralità di modelli. Da qui penso che possiamo partire per un'analisi sul femminicidio al di là di qualsiasi deriva psicologista e naturalistica.

I rapporti tra i generi sono infatti mutati grazie ai conflitti sociali che dagli anni Settanta fino ad oggi continuano a definire in modo sempre più ampio lo spazio relazionale, rovesciando i vecchi stereotipi e costruendo delle nuove forme di vita. Ma, allo stesso tempo, la ristrutturazione capitalistica postfordista ha configurato altre identità e rapporti, sussumendo ciò che le donne avevano conquistato con le lotte, attraverso la femminilizzazione del lavoro: il lavoro per eccellenza affettivo e relazionale solitamente tipico dell'insegnamento e della cura, adesso investe la maggioranza dei lavori ed è condizione fondamentale per la formazione del cosiddetto capitale umano. Le donne sono quindi entrate all'interno del mercato del lavoro in modo più incisivo e, sebbene discriminate e gerarchizzate, hanno ottenuto diritti e libertà individuali (p.es., anche se ora è sempre più difficile affermarli “grazie” ai Pro Life, come nel caso dell’aborto) , posizioni di “potere” formale nelle istituzioni e nelle varie amministrazioni, possibilità di essere indipendenti dal nucleo familiare e dalla casa. Come dicevo prima, tali libertà sessuali e di genere sono state ottenute con le lotte e sono diventate successivamente dispositivi per la valorizzazione capitalistica, per una normazione dei corpi molto più subdola e dissimulata.

A tutto questo è corrisposta una crisi della mascolinità tradizionale e una ridefinizione del rapporto tra i generi, senza però cancellare completamente l'idea egemone dell'uomo. Basti pensare, di nuovo, al pensiero cattolico integralista come in questo caso, oppure abitudini e mentalità che tuttora sussistono in Italia, soprattutto negli spazi extra-metropolitani. Se principalmente si configurano altri tipi di relazione (che comunque creano in un altro modo delle gerarchie) dove l'uomo vede il concetto costruito di mascolinità ridefinirsi e lasciare spazio in termini di potere agli altri generi, c'è sempre la possibilità che rientri la mascolinità “arcaica” nelle pratiche quotidiane.

Questo modello emerge in alcuni individui più chiaramente in momenti di crisi, sia economica che “esistenziale”, confliggendo con il modello paradigmatico di oggi. La crisi rende più acute le subalternità e la volontà di assumere un ruolo sociale che possa dare più benefici (materiali e sociali), a chi naturalmente è in posizione avvantaggiata rispetto ad altri; la crisi ri-attualizza nei soggetti modelli non più egemoni per diffondere l'individualizzazione, ridurre le libertà non solo dall'alto ma anche dal/tra il basso. Le vicende personali che fanno da sfondo alle violenze di genere sono in tensione tra delle libertà e chi vorrebbe eliminarle per avere più potere. Il singolo violento è quindi colui che si immagina un certo tipo di gerarchie , basati su un modello di mascolinità, ma si trova di fronte una realtà che non lo soddisfa e non rende reali tali gerarchie. La violenza è quindi la crisi del soggetto che vuole imporre quella gerarchia, che vuole confermare nuovamente la sua mascolinità negata.

Avere bene in mente questa fotografia biopolitica, significa evitare di attribuire la violenza sulle donne ad una categoria universale astratta: sia che si tratti delle donne, come Corsi vuole intendere, sia che si tratti degli uomini in generale (perché, in realtà, avrebbero represso il loro desiderio di dominio nei confronti delle donne). Con quest'ultimo atteggiamento si ricade nell'esatto opposto, ossia nell'identificare le donne come soggetto debole di per sé. Il conflitto tra i diversi modelli, che porta agli episodi di violenza, viene assunto da alcuni individui in modo irrazionale, non necessariamente scelto. L'importante è non dare una spiegazione psicologistica, per cui ci sarebbe una devianza del soggetto violento. E' bene avere in mente le relazioni di potere che vengono prodotte a causa dei discorsi, e come un modello del genere dal punto di vista sociale si sia reiterato fino ad oggi, come il parroco di Lerici fa ricordare.

L'alternativa radicale, il cambiamento della situazione attuale che ha visto 122 morti (accertate) di donne nell'ultimo anno, passa quindi per un diversità relazionale rispetto alle identità di genere imposte. Una relazionalità che può partire solo da pratiche comuni di libertà, in cui è in primis l'autodeterminazione dei corpi, e la rivendicazione delle condizioni di welfare ad essa necessarie, a dis-fare e ri-costruire le forme di vita. In cui tutt*, liber* e pensanti, a partire dall'auto-critica possiamo rifiutare le identità affibbiate e costruire una relazione trasversale virtuosa, una nuova mentalità.

Del resto, proprio Eva disobbedì ai comandati divini, e all'identità di donna obbediente e silenziosa, affermando la sua libertà di autodeterminazione, di conoscenza/consapevolezza e di scelta: insomma conquistò il diritto al “libero arbitrio” . Purtroppo Eva subì anche la punizione e il senso di colpa per essere libera. Noi non avremo alcuna difficoltà ad essere liber* senza alcuna colpa.