La velocità dell’Europa

Iniziano le prime risposte all’avanzata dei populismi e alla crisi strutturale dell’Unione Europa

14 / 3 / 2017

Non c’è giorno migliore di una commemorazione per lanciare un nuovo progetto, per indire una conferenza stampa o organizzare un meeting in cui vengono discussi i pilastri di un’istituzione, un partito o un sindacato. Quel filo rosso che lega tra loro passato, presente e futuro dà una soluzione di continuità che legittima appieno le nuove scelte o il nuovo progetto, facendolo apparire come lo sbocco naturale di quanto accaduto prima. E’ il caso di questo 25 marzo, una data che ricorda la stipulazione, avvenuta sessanta anni fa, dei Trattati di Roma. Per ricordare l’atto giuridico che ha dato avvio alla CEE (Comunità Economica Europea), ossia l’antenata dell’Unione Europea, i capi di Stato dell’intero Continente si ritroveranno a Roma per dibattere sullo stato dell’arte del processo di integrazione, sui meccanismi decisionali, sugli argomenti comunitari e sull’autonomia di ciascun Stato membro. Non solo: i capi di Stato imposteranno, sulla scia di quanto discusso nello scorso semestre, le linee guida che dovrebbero cambiare la direzione nella quale sta sprofondando l’Europa sotto i colpi della crisi strutturale ormai quasi decennale e l’avanzata dei cosiddetti “populismi”. Le prossime elezioni olandesi, francesi e tedesche lasciano più incognite che certezze per l’ambiente neoliberale che – tra democrazia liberale e socialdemocrazia – ha governato per sessant’anni l’Europa. Senza tralasciare la Brexit, la prima perdita di un Paese membro nella storia dell’UE.

Cosa dobbiamo aspettarci dall’incontro di Roma? Pur non avendo una sfera di cristallo, possiamo già scorgere delle linee politiche di tendenza nei documenti e negli incontri che i funzionari della governance europea hanno fatto nell’ultimo periodo. All’irreversibile e incontrovertibile crisi dell’Europa – che tocca la cittadinanza, la libertà di movimento, la decisionalità – viene contrapposta una risposta che, attualmente, non fa che approfondire la crisi stessa promuovendo una sola possibilità di salvezza. Tutto ciò lo possiamo vedere nella Dichiarazione e Roadmap del Consiglio europeo di Bratislava, nel White Paper pubblicato dal Presidente della Commissione Europea Juncker e dalla conferenza stampa avvenuta a Versailles qualche giorno fa a cui hanno partecipato Rajoy, Gentiloni, Merkel e Hollande. 

Un nuovo concetto per “giustizia, libertà e sicurezza”

Il 16 settembre dello scorso anno, a ridosso della Brexit e guardando da lontano la fine della campagna elettorale americana, i capi di Stato dell’Unione Europea hanno finalmente accettato l’inevitabile verità: la struttura delle istituzioni sovranazionali, il rapporto con i singoli Stati, l’andamento dell’economia e della disoccupazione stanno erodendo dall’interno il progetto Europa. Lo spazio di “giustizia, libertà e sicurezza” sancito da Schengen e incorporato nel 1999 dal Trattato di Amsterdam, che ne ha esteso la validità a tutti i membri dell’Unione Europea, dimostra falle per ciascuno di questi termini. Da una parte, la differenziazione dei sistemi di welfare nazionali, così come di alcune tutele legate ai diritti civili, degli Stati membri non ha garantito uno standard omogeneo per i cittadini europei; in ultimo, le dinamiche che hanno interessato la libertà di movimento delle persone tra il 2015 e il 2016, con il ritorno di controlli e blocchi alle frontiere non solo per le persone extracomunitarie, ma anche per i cittadini europei. Non possiamo dimenticare che tutto questo si è reso evidente, soprattutto, con i flussi migratori del 2015 che hanno accentuato ancor di più gli strappi tra governance e Stati, dimostrando tutta l’insufficienza del diritto comunitario. Dall’altra, la scia di attentati, causati prevalentemente da abitanti dell’Unione aventi i documenti europei, ha dimostrato tutta l’inefficacia del sistema cooperativo delle intelligence europee. Per tutte queste ragioni la leadership neoliberale sta subendo un calo di fiducia come mai in precedenza, essendo la responsabile della catastrofe che si è abbattuta sulle spalle di milioni di europei. Proprio sulle macerie sociali, economiche e ambientali causate dalle élites neoliberali prendono le mosse e si nutrono i populismi reazionari, quei movimenti e partiti di estrema destra che mirano alla ripresa della sovranità per riabilitare velleità di protezionismo e decisionismo di Stato. Una visione che non lascia spazio ad ogni possibile ambito comune del mercato della concorrenza, con egemonia e profitti principalmente tedeschi, o alla riforma dell’Unione Europea. 

I 27, preso atto della crisi, hanno dichiarato il loro impegno per un’Europa più attrattiva, più unita, più coordinata, individuando in tre grandi questioni gli interventi strategici da fare: guerra e terrorismo, migrazione, sicurezza sociale. Per quanto riguarda il primo punto, si è trovato un generale accordo nell’internazionalizzazione dei dati sensibili di monitoraggio delle attività terroristiche all’interno dello spazio europeo e nel rafforzamento del rapporto con la NATO e le sue missioni all’esterno. Una critica all’intervento in Medio Oriente e in Nord Africa, tra le cause principali della polarizzazione nel corpo sociale dell’Unione e delle migrazioni, sarebbe costata troppo: chi glielo sarebbe andato a spiegare alle corporation e multinazionali che devono estrarre idrocarburi da una zona ricca di petrolio? Oppure a chi deve fare affari con l’Arabia Saudita? Quindi, in un certo senso, si vuole combattere il terrorismo intensificando gli apparati di polizia, ma senza estirparne la radice. Come se un medico volesse curare solo i sintomi e non la causa della patologia. Anche sulle migrazioni, del resto, non si è indicato alcun cambio di rotta. Posta la consapevolezza della fallacità del sistema del diritto di asilo europeo e delle relocation, la soluzione non si è trovata nella strutturazione di politiche comunitarie volte all’accoglienza – dignitosa, che rende autonomi i soggetti e ne facilita l’inserimento sociale - e ai canali umanitari. Per i capi di Stato il problema è rafforzare quanto già indicato da Schengen: libertà all’interno dell’Unione, difesa serrata dei confini esterni con la conseguente riduzione dei flussi migratori e l’espulsione dei migranti irregolari. Ancora una volta, con un sistema deficitario di asilo e con la prosecuzione delle guerre extra-europee, non si capisce come sia possibile ridurre le persone in fuga da misera e distruzione, se non attraverso l’uso di strumenti repressivi che provocano la morte di migliaia di persone ogni anno. L’estensione del modello dell’accordo con la Turchia ai Paesi dell’Africa –  il Migration Compact – è stata inserita tra i proponimenti dell’Unione a 27 per far fronte alle partenze dai territori extra-europei, non curanti dell’immediata conseguenza, verificatasi anche in Turchia: la spinta a trovare dei mezzi illegali e pericolosi per migrare. Questo fenomeno diventerà ancora più strutturale una volta che la polizia di frontiera, come sta già avvenendo adesso con le direttive, intensificherà la sua presenza presso i confini esterni in maniera coordinata. In ultimo, sulla sicurezza sociale non è stata proferita parola sulla situazione giuridica dei contratti di lavoro - completamente liberalizzati e che puntano all’abbassamento del costo del lavoro -, al dumping sociale, alle dislocazioni. L’unica cosa di cui sono stati capaci di discutere i capi di Stato è il piano per gli investimenti strategici della Commissione europea notoriamente impiegati per costruire grandi opere e infrastrutture energetiche. Un’aggiunta, che qui occupa poco spazio ma che nelle parole di Juncker diventa centrale, tocca la questione delle nuove tecnologie digitali da sostenere tramite investimenti. 

Gli sforzi dell’Unione Europea vanno dunque nella direzione di un ampliamento del mercato unico con l’introduzione delle nuove tecnologie, di una protezione del suolo europeo interno di contro all’impenetrabilità dall’esterno. Le élites neoliberali arrancano nel tentativo di togliere consenso elettorale alle forze reazionarie e xenofobe, mostrando il pugno duro, per quanto condito con la retorica dell’assistenzialismo per i meritevoli, contro i migranti. 

Il pronostico dell’Europa dei 5 presagi

E’ recente l’uscita del White Paper prodotto dalla Commissione Europea per mano di Juncker, nel quale vengono riprese le linee di discussione del Consiglio di Bratislava. Il Presidente fa propri alcuni degli indicatori della crisi europea in quanto concetto, oltre che dimensione economica, sebbene l’intenzione che lo muove sia più la perdita dell’egemonia occidentale piuttosto che i diritti e le libertà di tutti e tutte. L’introduzione del libello mostra che l’invecchiamento e l’accrescimento delle speranze di vita degli europei non sono paralleli ad un aumento delle nascite, determinando una tendenza allo spopolamento. La paura di non rappresentare più del 4% della popolazione mondiale tra cinquanta anni, con un’età media attorno ai 45 anni, è quello che porta Juncker a considerare nuove strategie economiche. Ovvero: le proposte di cambiamento non sono dettate sulla base dei fallimenti, delle contraddizioni, dei buchi neri che l’assetto attuale dell’Europa ha prodotto; il cambiamento è un modo per rimanere competitivi nel mercato globale e continuare a impiegare la forza-lavoro a fronte della modifica della composizione sociale europea. Nel libello si richiamano esplicitamente le nuove tecnologie, già menzionate a Bratislava, e tutte quelle forme di lavoro che rompono i confini tra il dipendente e l’imprenditore di sé, il consumatore e il produttore, le merci e i servizi. Il richiamo all’economia delle piattaforme e alle modalità di lavoro 2.0, come possono essere rappresentati dalla sharing economy di Airbnb o di Foodora e Uber, sono i chiari riferimenti del testo della Commissione. In un mondo in cui l’automazione e i processi tecnologici intensificano la produzione anche per il lavoro maggiormente qualificato, è necessario trovare un modo per non disperdere troppo il plusvalore del capitale.  Come? Ripristinando la formazione all’interno di griglie e modalità differenti e dando delle regole comuni per normare questo tipo di lavoro. Il passaggio viene trattato in modo sbrigativo nel libello. Tuttavia, non fa intravedere niente di altamente entusiasmante se pensiamo che le ultime riforme del mondo della formazione in Europa hanno imposto modelli normativi e disciplinari ai saperi nonché l’alternanza scuola-lavoro. 

La parte più di interesse del testo è però contenuta negli schemi finali in cui Juncker propone cinque possibili scenari dell’Europa del 2025 a seconda delle strategie e delle misure adottate a partire dal 25 marzo a Roma. Tra tutti – che differiscono a seconda di quanta perdita di sovranità dei singoli Stati a favore delle decisioni comunitarie sono disposti a fare i membri -  emerge lo scenario tre “Those who want more do more” [“Chi vuole di più, fa di più”]. In questo scenario troviamo l’espressione “coalition of the willing”. Cosa vuol dire? Significa esattamente concepire un’Europa a diverse velocità. L’Unione Europea rimane così com’è ma inizia a prevedere una zona di raccordo tra i Paesi che desiderano centralizzare ulteriormente la decisione politica in direzione comunitaria, per esempio negli ambiti delle norme economiche dei bilanci pubblici in merito alla spesa sociale, per le politiche interne e per la difesa; una sorta di meccanismo opt-in, contrario alle eccezioni opt-out di cui faceva parte anche la Gran Bretagna, che omogeneizza gli standard di cittadinanza e di direzione politica tra alcuni Stati, lasciandone fuori altri. La configurazione europea vedrebbe quindi un’area periferica, ma comunque inclusa, che continuerebbe a funzionare come adesso. Per quanto i cittadini “più interni” vedrebbero superate le barriere dei diritti sociali e civili presenti nell’Europa a 27, la disparità e la distanza da tutti gli altri Paesi che rimangono fuori dall’inner circle verrebbe approfondita ulteriormente. Dal punto di vista istituzionale, inoltre, le modalità della decisione, proprio in ragione della doppia velocità, verrebbero a complicarsi. 

Ora, è vero che tra gli scenari della Commissione anche il quinto è descritto con parole entusiaste e con molti meno difetti degli altri; sarebbe lo scenario che prevede l’estensione a tutti gli Stati membri della “coalition of the willing”, con l’emanazione degli istituti della cittadinanza direttamente proveniente dall’UE. Eppure, vista l’imprevedibilità  delle prossime elezioni (tra cui aggiungiamo l’Italia) e l’opposizione di alcuni Stati (come l’Ungheria di Orban), sembra che l’opzione a due velocità sia quella più quotata. Del resto, è proprio in questi termini che Merkel e Hollande vanno parlando da diversi mesi a questa parte, come dimostra la conferenza stampa di Versailles.

Doppia velocità per l’Europa

La conferenza stampa di Versailles, città in cui si è data la pace del primo conflitto mondiale, ha sottolineato la necessità di sviluppare diverse dinamiche in seno all’Europa, pur mantenendola unita. Parlare di livelli differenziati di Europa sta nelle corde dello stesso Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, che nel summit del 3 febbraio a Malta ha dichiarato, “United we stand, divided we fall”. Se l’obiettivo è preservare l’Europa di fronte ai populismi e alle turbolenze geopolitiche, a cui bisogno aggiungere la politica russa nei confronti dell’Ucraina, diventa fondamentale ristrutturare l’Unione prevedendo, appunto, una nuova architettura. Negli ultimi anni il problema è stato la ripresa degli strumenti dello Stato-nazione - che non ha mai perso sovranità per quanto riguarda le politiche interne, la difesa e i confini - utilizzati per opporsi alle decisioni comunitarie. Da ricordarsi che la riabilitazione parziale degli strumenti giuridici statuali non è stata fatta solo dalle forze populiste, come abbiamo potuto vedere con l’Ungheria e la Croazia, ma anche dalla Francia (sui confini e lo stato d’emergenza), dal Belgio e dalla Germania (restrizioni del welfare nazionale per i migranti comunitari), dalla Gran Bretagna (la già citata Brexit). Di fronte a tali forze centrifughe la soluzione prospettata è una nuova centralizzazione della decisione e una stretta più marcata sopra le politiche sociali, economiche e strategiche. Una prospettiva che non lascia spazio all’autodeterminazione dei territori, alle esigenze delle comunità locali, alla decisionalità dal basso sul presente e sul futuro. Non è difficile immaginarsi che il perimetro normativo entro cui si darà questa Europa più unita a una velocità, di cui l’Italia dovrebbe far parte, non distruggerà Maastricht, il regime del debito sovrano e del PIL, l’inefficienza della BCE; oppure i piani strategici per gli investimenti che portano a imporre sempre più grandi opere e infrastrutture a scapito dell’ambiente e della ricchezza collettiva. Per non parlare del piano sulla regolamentazione delle nuove forme di lavoro, oggetto di discussione anche del G7 di Taormina a maggio, che non allude a niente di buono sul fronte delle tutele dei lavoratori e delle lavoratrici. 

Una nuova Europa

In questo quadro le velleità riformistiche dell’Unione Europa partendo dalle sue istituzioni vengono ulteriormente smentite: è utopico sperare che, in mezzo a questo processo, delle forze politiche possano sbarazzarsi di Maastricht, distribuire il potere di decisione e avere la prontezza temporale di invertire il processo di centralizzazione che le èlites neoliberali stanno pensando per la loro sopravvivenza. Ancora più assurda appare l’idea di un’uscita dall’euro, che farebbe diventare un singolo Stato vittima di processi di protezionismo economico nei suoi confronti, oltre a trovarsi impotente di fronte all’intervento speculativo dei mercati e alle imposizioni della governance globale. 

Il percorso per un’altra Europa è difficile, non è possibile fare sconti o illudersi in questo senso. Ma non possiamo immaginarci il 25 marzo all’interno di un processo per immaginarci un’altra idea di Europa? Non c’è bisogno, ora più che mai, di avviare una fase costituente per ridisegnare dal profondo la cittadinanza, la democrazia confederata e lo sviluppo economico-energetico? Dal conflitto con i populismi reazionari e con le linee guida dell’Europa neoliberale, è necessario far uscire un progetto comprensibile, che vive nei corpi della parte migliore della cittadinanza europea, quella che ha vissuto la libertà di movimento e l’abbattimento delle frontiere. Forse è questo l’unico modo affinché dalla crisi non si producano soltanto macerie, ma la possibilità di un nuovo mondo che nasce dal superamento di quello vecchio.

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 1 http://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2016/09/16-bratislava-declaration-and-roadmap/

2 http://europa.eu/rapid/press-release_IP- 17-385_en.htm

3 Il meccanismo opt-out, previsto dal Trattato di Lisbona, identifica quei Paesi appartenenti all’Unione che non sottoscrivono alcuni dei suoi trattati, come, tra gli altri, era il caso della Gran Bretagna rispetto ai vincoli di bilancio.