La Valsusa, il Kurdistan e le veline della Questura

2 / 8 / 2022

“Nessun amico se non le montagne”, è un detto curdo; un motivo che racchiude in sè una lunga storia di tradimenti: dalla fine dell'Impero ottomano fino ai giorni nostri, non ultimo l’accordo raggiunto all’ultimo vertice NATO di Madrid tra Finlandia, Svezia e Turchia. Accordo che si allinea totalmente alla politica anti-curda del governo turco, e che mostra l’ipocrisia di un sistema che si definisce “democrazia occidentale”.

Nelle montagne del Kurdistan, nelle zone controllate dalla guerriglia, nei mesi invernali ci si dedica per lo più alla formazione, all’addestramento, allo studio. Con lo sciogliersi delle nevi la natura si risveglia, escono i primi raggi di sole, e anche la guerriglia, in realtà mai sopita, può riprendere i suoi appostamenti. 

A distanza di chilometri e chilometri esiste un’altra sacca di resistenza, un villaggio di “irriducibili” come verrebbe descritta se ci trovassimo in un fumetto di René Goscinny e Albert Uderzo, anche oggi protagonista di dichiarazioni quantomeno immaginifiche e sbattute sulle pagine dei media mainstream

La mobilitazione contro il Tav in Valle di Susa è diventata "il principale terreno di scontro con lo Stato" da parte degli antagonisti, che nel corso del tempo hanno utilizzato "tecniche di guerriglia mutuate verosimilmente anche da altri territori di conflitto bellico (vedi il Kurdistan) e adattate al particolare contesto boschivo”. Dichiara così la Digos di Torino nel dossier inserito nell'ambito dell'inchiesta sul centro sociale Askatasuna, sfociata nei giorni scorsi nel rinvio a giudizio di 28 militanti.

Dichiarazione che “casualmente” rimbalza oggi nei giornali e che spiega a chi legge come questi "ordigni esplosivi" e gli strumenti utilizzati nel corso degli attacchi al cantiere, tra cui un particolare dispositivo da lancio che per anni è stato un mistero per gli stessi investigatori - lo sparapatate - siano di ispirazione alla “guerriglia curda”. Il movimento No Tav, difende le montagne da 32 anni, in una valle al confine con la Francia, la Valsusa, da un’opera dannosa e inutile, il TAV, che rischia di costare ancora di più del previsto. 

“Non ci sono governi amici, ma neanche candidati amici”, hanno dichiarato alcuni portavoce del movimento durante l’ultima edizione del Festival Alta Felicità che si è svolto lo scorso weekend. Questo perché, in questi trent’anni, la politica istituzionale ha sempre nicchiato sulla questione, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore ha avallato lo scempio di una valle alpina, la distruzione del suo tessuto naturale e sociale. 

Oltretutto, il cantiere di San Didero, terreno principale della manifestazione svoltasi sabato 30 luglio, è famoso per essere un “sito fantasma”, dato che di fatto, là dentro non ci lavora nessuno: è una struttura vuota, un’area di circa 68 mila metri quadri militarizzata e presidiata giorno e notte da centinaia di agenti, nonostante il bando per la realizzazione del progetto sia stato definitivamente ritirato il 6 maggio scorso. 

La fantasiosa se non fuori luogo comparazione tra le mobilitazioni e proteste No Tav alla guerriglia curda, fanno quindi parte di un grande disegno politico-giudiziario che, nel criminalizzare chi lotta, deve giustificare il grande sperpero di risorse economiche e materiali che sottendono la (non) costruzione di questa grande opera. E prendere di mira il Centro Sociale Askatatasuna, una delle anime del movimento, con le goffe accuse di associazione a delinquere fa parte di questo disegno che vede proprio la magistratura torinese come assoluta protagonista.

Stesso film della procura di Torino che nel gennaio 2019 ha proposto per Eddi Marcucci e altri quattro volontari, a causa del loro contributo in Siria, la più pesante delle “misure di prevenzione”, di matrice fascista, ossia la “sorveglianza speciale”. 

In seguito, la sentenza del 17 marzo 2020 ha reputato Eddi Marcucci “un soggetto socialmente pericoloso”. La motivazione non era tanto quella di aver combattuto contro il fondamentalismo islamico in Kurdistan, ma proprio quella di essere stata un'attivista no Tav.

Il movimento No Tav è la storia di un popolo con legami fortissimi con la propria terra che si è fatto carico del proprio territorio, di cittadini che decidono di impegnarsi contro un’opera - calata dall’alto - ritenuta dannosa per l'ambiente, troppo costosa e sostanzialmente inutile. E se anche il movimento No Tav, ha come amici le montagne, che difendono da anni e anni, allora ancora una volta c’è la necessità di essere dalla loro parte, e di sostenerli.