La Terza Repubblica del Presidente?

Brevi riflessioni sulla transizione costituzionale del Belpaese - di Francesco Brancaccio

21 / 11 / 2011

Nell'editoriale di ieri (20.11) Scalfari – oggi ripreso da Panebianco sul Corsera – ha chiarito la correttezza costituzionale dell'operazione di Napolitano. Un occhio attento non può non soffermarsi sulle ipotesi di transizione costituzionale che potrebbero accompagnarsi al 'fatto nuovo' del governo del Presidente.

La conseguenza 'logica' del discorso del fondatore di Repubblica potrebbe condurre, effettivamente, ad una riforma della forma di governo italiana nella direzione del 'semipresidenzialsmo' alla francese. Nel Pd abbondano i sostenitori di una tale ipotesi, molti dei quali provenienti dall'area cattolica (tra cui Ceccanti). Fini è un altro convito sostenitore di questo modello. Meno entusiasti Casini e D'Alema che da sempre preferiscono il 'modello tedesco', sia per quanto riguarda la forma di governo (parlamentare con sfiducia costruttiva) sia per quanto riguarda la legge elettorale (proporzionale con sbarramento al 5%). Da notare, invece, che l'ipotesi (anche referendaria) di un ritorno alla legge Mattarella (maggioritario uninominale) è preferita dai sostenitori del semi-presidenzialismo.

Del resto, il secondo dei 'precedenti' di storia costituzionale che Scalfari cita (il terzo governo Fanfani), il quale inaugurò la fase delle «convergenze parallele» (anche se poi omette di precisare che le convergenze parallele si tradussero, in Italia, ben presto in «neoconsociativismo») e un tiepido riformismo all'italiana (la prima, breve, stagione del centrosinistra, la nazionalizzazione dell'Enel, l'amministrativizzazione dello Stato, etc.), fu fortemente condizionato dalla 'spinta costituente' che, in Francia, stava portando al passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica, attraverso i referendum costituenti gollisti (1958; 1962), sul semipresidenzialismo, appunto (da alcuni anche definito, con un ossimoro, 'monarchia repubblicana' o 'monarchia presidenziale', Duverger).

Proprio negli anni del primo centro-sinistra si apriva, in Italia, il dibattito sui limiti del parlamentarismo e sulla crisi della costituzione repubblicana. Tre sono state le letture che, in chiave genealogica, anticiparono le questioni che si sono poste poi con forza, prima tra il '68 e gli anni 70 e poi, nel passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica: il dibattito sui mali della 'partitocrazia' (introdotto da Maranini); la critica del 'parlamentarismo integrale' e dell'assetto centralistico dello Stato così come voluto dalla Costituzione, che sancisce la Repubblica 'una e indivisibile' (Miglio); infine, la critica dello 'Stato dei partiti' (Negri), la critica, in altri termini, non tanto alla 'degenerazione', in chiave moralistica, dei sistemi di partito ma alla forma-partito come tale ed alla sua sopravvenuta incapacità di comporre rappresentanza e mediazione degli interessi (lo Stato-piano che si sostituisce, negli anni '60, allo Stato dei Partiti).

La prima porta direttamente ai referendum contro il finanziamento pubblico ai partiti e sul maggioritario del 1991-1993 e, per dirla con Berlusconi, al colpo di Stato della magistratura e a Di Pietro. La seconda porta al 'federalismo' della Lega, alla 'regionalizzazione' dei partiti e all'emergere della questione fiscale. La terza al riconoscimento della nuova centralità assunta dai movimenti nella crisi del parlamentarismo.

Detto questo, la cosa più rilevante ma implicita del discorso di Scalfari è che, rebus sic stantibus, per lui, al momento attuale, non sarebbe più necessaria neanche una riforma in senso semipresidenziale (anche perchè tra i compiti affidati al governo Monti non è prevista una riforma di questo tipo). In altre parole Napolitano - secondo Scalfari - forzando il suo ruolo di 'garante', starebbe riabilitando un'interpretazione letterale della Costituzione. Napolitano, attraverso un uso 'eccessivo' (e a tratti 'eccezionale') dei suoi poteri starebbe ripristinando la originaria legalità costituzionale negata, rompendo così quella continuità della costituzione materiale della Prima e della Seconda Repubblica fondata sul governo negoziato dai partiti. I partiti, secondo Scalfari, si dovrebbero limitare ad essere «raccoglitori del consenso popolare» e riporre fiducia a governi, scelti di volta in volta dal Presidente sulla base delle necessità tecniche e amministrative imposte dalla contingenza (vale a dire dai poteri finanziari).

Una vera e propria nuova «tecnica di governo» come abbiamo già scritto in un editoriale qualche giorno fa. Anche perché Scalfari auspica che una tale situazione 'eccezionale' venga consolidata, istituzionalizzata (l'eccezione spalmata sulla normalità, la governance più che Agamben). Che i partiti fossero ormai solo 'raccoglitori del consenso' o, meglio, dei sondaggi e dei voti (perché il consenso già è una cosa più seria) ce n'eravamo accorti da un pezzo. Bene che venga ora esplicitato anche da Repubblica.

Scalfari effettua questa forzatura, tra l'altro, perché ha anche la necessità di comporre il discorso che fa da quindici anni su Berlusconi 'eversore della costituzione', con il nuovo ruolo assunto dalla figura del Presidente custode e garante della Costituzione (provando così a mantenere anche un briciolo di coerenza nelle sue analisi). Discorso ipocrita perché ammantato di legalità. Le condizioni sono mutate e ora il problema che si pone è il ruolo che Napolitano sta assumendo, forte del suo amplissimo consenso (a mezzo di sondaggi, perché fino ad oggi il Presidente della Repubblica è ancora eletto dal Parlamento, non dal 'popolo sovrano'). Dovrebbe avere il coraggio di aggiungere, però, che in Italia sono in molti, tra le forze politiche, a voler 'piegare' la legalità costituzionale e che il problema non è tanto individuare chi, di volta in volta, sia il fuori legge di turno, quanto di assumere che la legalità stessa è sempre un dispositivo flessibile e determinata da condizioni essenzialmente politiche.

È evidente che tra le varie teorie della Costituzione, leggendo Scalfari viene in mente subito il saggio di Schmitt sul Custode della Costituzione. Quando Schmitt parlava del Presidente del Reich come Custode della Costituzione aveva di fronte a sé la Costituzione di Weimar, primo esempio storico di forma di governo semipresidenziale (vale a dire con doppia elezione diretta, del parlamento e del capo dello stato, e con governo sottoposto ad una doppia fiducia, parlamentare e presidenziale, nel senso che la seconda 'assorbe' la prima). La cosa finì così: dopo tre anni di governi presidenziali, nel 1933 il Presidente 'garante' Hindenburg cedette al ricatto del partito nazionalsocialista e nominò Hitler Cancelliere del Reich. Hitler, dopo pochi mesi, incendiò il Reichstag. Schmitt divenne, per qualche anno, giurista ufficiale del nazismo, prima di uscire di scena sotto le minacce delle S.S. (ironia della sorte).

Uso questo esempio non per agitare lo spettro di un nuovo nazismo alle porte (non sarebbe una forma politica consona alla governance finanziaria, tra l'altro) ma per dimostrare che un super-Presidente non è mai il custode di una presunta neutralità formale, ma è a sua volta condizionato dalle concrete forze materiali in campo.

È evidente che questo (ab)uso dei poteri presidenziali è aperto a diverse soluzioni, tra cui anche una possibile riforma in senso semipresidenziale. Effettivamente le strade aperte sono molte e la 'fiducia record' consegnata al Governo Monti lascia presagire l'apertura di una fase costituente (in senso istituzionale, dall'alto). Come chiariva l'editoriale sulla Terza Repubblica dei movimenti, il problema è ora capire quale sarà la direzione di questa fase costituente, e capire se i movimenti e le lotte avranno la capacità di condizionarne gli esiti, ponendosi, tra l'altro, su un piano immediatamente europeo (come scrive Francesco Raparelli nel suo editoriale). Partendo dal presupposto che la mediazione parlamentare è definitivamente saltata e che un parlamento che vota la fiducia quasi all'unanimità è l'esempio più lampante della sua completa esautorazione.