La strage delle certezze bucate

22 / 12 / 2016

Tante cose sono ancora avvolte da confusione ad oltre 48 ore dalla ”strage di Berlino”, il cui bilancio è per il momento fermo a 12 vittime e 48 feriti. Delle vittime alcune non sono ancora state identificate; per loro si sta proseguendo alla certificazione mediante il riconoscimento o con l’analisi del DNA. La polizia tedesca, spesso preceduta dalla fama di solerzia ed impeccabilità, fino ad ieri pomeriggio non aveva ancora ancora reso noto un identikit completo del ricercato; addirittura non si sapeva se i sospettati fossero uno o due. All'interno del mezzo usato per la strage sono stati ritrovati dei documenti di identità di un giovane tunisino, Anis Amri, del quale si conoscono solamente alcuni dei tratti biografici. I media insistono molto sul suo sbarco  Lampedusa, su un passato delinquenziale che lo ha portato per quattro anni dietro le sbarre dell’Ucciardone, sul rifiuto delle autorità tunisine di ottemperare al decreto di espulsione ottenuto in Italia. Sulla sua vita in Germania e soprattutto su eventuali legami con le cellule internazionali dell’Isis, l’elemento più rilevante di tutta la vicenda, le informazioni sono ancora molto frammentate. 

Le pressioni iniziano a farsi sentire, soprattutto dopo la cantonata presa dagli inquirenti teutonici circa 12 ore dopo l’attentato, quando sono state costrette a rilasciare, con mille scuse, un ventitreenne pakistano già crocefisso dal circo mediatico internazionale, con le solite testate italiane che sgomitavano per accaparrarsi la lancia per trafiggerne il costato. La sensazione è che la polizia si stia muovendo in maniera frenetica, setacciando abitazioni private e centri profughi, proprio sulla scorta di tali pressioni e del clima politico venutosi a creare in Germania. Le indagini si stanno concentrando nell’area del Nord Reno-Westfalia, dove sembra che Anis abbia soggiornato per diverso tempo, ed ha fermato 4 persone, poi rilasciate, sospettate di aver avuto contatti con l’uomo.

A fronte di elementi di cronaca ancora opachi e mutevoli si sta delineando, invece, un quadro politico cristallino (e fragile). È l’Isis ad aver colpito, armando la mente e la mano di uno o più richiedenti asilo, in risposta alla riconquista di Aleppo da parte del regime di Assad ed in concomitanza, o quasi, con un altro attentato che ha scosso nei giorni scorsi l’opinione pubblica: l’uccisione dell’ambasciatore russo in Turchia, avvenuta in un museo di Ankara per mano di un poliziotto al grido di «Allah akbar». Il quadro politico viene completato dal fatto che quella dei camion è una strategia che l’Isis sta consolidando nei suoi attacchi al cuore dell’Europa, come abbiamo avuto già modo di vedere a Nizza, e che la radice del problema siano i milioni di immigrati che abitano (oppure «hanno invaso», a seconda della matrice ideologica dell’analisi) il vecchio continente.

«Tutto così chiaro che non ci credo» direbbe il buon Adamsberg. Sebbene non abbiamo la fantasia dello “spalatore di nuvole” regalatoci dalla penna di Fred Vargas, proviamo anche noi a sollevare le obiezioni su un quadro che non ci convince in nessun aspetto e che è fatto di certezze bucate. L’unico elemento che al momento appare certo è la rivendicazione da parte dell’Isis, avvenuta per mezzo dell’agenzia Amaq. Una rivendicazione che appare più un gesto posticcio che un’azione pianificata ed organizzata con un preciso scopo politico, come già accaduto con la strage dello scorso 14 luglio a Nizza, che per modalità e tragico epilogo ricorda tremendamente quella berlinese. Questo mutamento di strategia rivendicativa da parte dell’Isis non è detto che sottenda ad una diminuzione della propria capacità organizzativa, che ne ha drammaticamente tracciato i caratteri in senso post-moderno, ma di certo indebolisce in parte quel rapporto immediato tra azione terroristica ed obiettivi politici, che nella fase precedente tracciava un ponte leggibile tra i territori di contesa bellica e le aree di espressione della guerra a bassa intensità. Con questo non vogliamo dire che la situazione siriana non abbia minimamente influenzato l’attentato, ma è difficile pensarlo all’interno di una strategia dell’Isis, che proprio ad Aleppo aveva da tempo perso forza militare e politica. La rincorsa a «mettere il timbro» sull’attentato di Berlino fa parte forse di un’altra strategia dell’Isis, ossia quella di non perdere quell’appeal del terrore e continuare a giocare, almeno in Europa, il ruolo egemonico sul fondamentalismo islamico che l’evolversi del conflitto in Siria ed Iraq sta mettendo in discussione in Medio-Oriente.

Se la corrispondenza tra Aleppo e Berlino fa sorgere in noi un ragionevole dubbio, ancora più marcata è la titubanza tra la strage nel capoluogo tedesco e l’attentato di Ankara. Riteniamo, anzi, che non solo l’accostamento sia fuorviante, ma sia assolutamente funzionale a quella “economia della violenza” della quale parlavamo alcuni mesi fa[1]. La lettura univoca e meccanicista di eventi di questo genere - consumata all’interno di un vortice necropolitico che vede rincorrersi la governance neoliberale, le forze del populismo identitario ed il fondamentalismo islamico - rende sempre più la violenza, perpetrata dall’alto verso il basso, un tratto distintivo dei rapporti di potere nel capitalismo contemporaneo. Uno schema che si riproduce immediatamente nella guerra ai migranti che, a vario livello, media, forze politiche ed apparati polizieschi intensificano in seguito ad episodi come quello di Berlino. L’irruzione al campo profughi di Tempelhof, fatta dalle unità speciali della polizia poche ore dopo la strage, ne è una prova lampante.

Già dalle prime battute appare lampante come la strage di Berlino possa diventare un fattore all’interno della campagna elettorale che si sta aprendo in Germania per le prossime elezioni politiche, previste per la fine dell’estate o l’inizio del prossimo autunno. Angela Merkel, la cui candidatura alla Cancelleria è stata riconfermata al congresso della Cdu terminato il 7 dicembre scorso, ha provato con forza a spostare a destra l’asse politico del partito. Nel discorso da lei tenuto al citato congresso, le dichiarazioni contro il burqa e sulla possibilità di attuare misure più restrittive per l’accoglienza dei rifugiati sono sembrate qualcosa più che semplici battute ad effetto. È chiaro che la Cdu deve guardarsi a destra, soprattutto dopo quanto avvenuto alle elezioni in Meclemburgo-Pomerania dello scorso settembre. Il sorpasso di Afd ai danni della compagine della Merkel[2] ha il sapore di una sfida che si giocherà proprio sul terreno delle migrazioni. Nonostante la Cancelliera stia ancora passando nella narrazione mainstream come la «paladina dei migranti», è indubbio che il connubio terrorismo-migrazioni, ben marcato nella lettura dei fatti di Berlino, è già parte integrante di un discorso pubblico egemonico sul quale le forze politiche si stanno attestando, per convinzione o per convenienza. L’incredibile aumento di consensi avuto dall’Afd negli ultimi anni è coinciso con l’intuizione della leader Frauke Petry di radicalizzare le proprie posizioni in chiave anti-islamica e di identitarismo nazionale, leggendo nel perverso rapporto tra impoverimento della società tedesca e “paura dell’invasione” una possibile miniera d’oro, in termini di bacino elettorale. Questo rapporto, ormai assorbito da gran parte del corpo sociale, viene ancor più consolidato dall’elemento securitario, dall’incubo, cavalcato dagli opinion makers, che in ogni migrante possa annidarsi un potenziale attentatore.

Per far fronte alle contraddizioni che la strage di Berlino svela, per rendere realmente giustizia all’ennesimo bagno di sangue gratuito, al di fuori di ogni ipocrisia, è necessario scavare dentro al discorso pubblico che viene creato e vedere dove si nascondono quei meccanismi che alimentano l’economia della violenza, la polarizzazione sociale e le tensioni individuali. Bisogna sempre portare avanti un lavoro dove si trovano delle cause reali per comprendere laddove ci sono responsabilità dei rapporti di potere e della politica. In questo caso ci sembra che la matrice comune di tutti gli episodi di violenza non sia tanto “l’unico grande male” dell’Isis, quanto gli effetti bellici del neoliberalismo: da quelli esportati in terre non occidentali e tatticamente governati a quelli che si sono creati dopo anni di impoverimento sociale e di diffusione del razzismo.



[1] F. Mengali, Economia ed antropologia della violenza nel "bellum omnium contra omnes”, Globalproject.info, 29 luglio 2016

[2] Vedi, A.P. Lancellotti, Germania. Sorpasso a destra, Globalproject.info, 5 settembre 2016