La spettacolarizzazione di una cattura come l’esegesi dell’emergenzialità penale

16 / 1 / 2019

“Pathos”: è il termine tecnico della retorica greca, che indica il tono di passionalità, concitazione, grandezza, proprio della tragedia.

Una musica d’effetto sovrastante accompagna lo scorrere delle immagini di Battisti da ricercato, delle riprese dell’arrivo dell’aereo a Ciampino, della sua traduzione con uno stuolo di Polizia e secondini, mentre i Ministri dell’esecutivo giallo-verde, inamidati e fermenti, esultano durante la conferenza stampa convocata ad hoc. La colonna sonora da romanzo noir (giusto per restare in tema) sfuma e, in uno strategico climax ascendente, Alfonso Bonafede scandisce le parole: «Sconterà la pena dell’Ergastolo».

Nei tempi in cui i meme e le fake news dominano sul panorama informativo, avremmo pensato proprio a tutto, persino a un montaggio a sfottò creato dalle pagine ironiche, tranne che alla realtà solida dei fatti. Il Ministro della Giustizia, carica apicale, ha infatti pubblicato, con un montaggio degno dei telefilm a basso costo, questo video sul profilo personale Facebook contornandolo col post: «Il racconto di una giornata che difficilmente dimenticheremo!».

La spettacolarizzazione dell’operazione Battisti ha raggiunto livelli record, tanto da rimembrare il fine della pena medievale: la gogna e la forca, come effetto deterrente, ma anche come momento sociale per il “popolaccio”, ben prima dei tempi in cui il nostro connazionale Cesare Beccaria scrivesse il Dei delitti e delle pene. Eppure, nel nostro ordinamento giuridico, così come ricordava l’Associazione Antigone esistono delle norme a tutela del condannato: l'art. 114 del codice di procedura penale vieta «la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica», così come anche l'art. 42 bis dell’Ordinamento penitenziario che impone l’adozione di «opportune cautele per proteggere» gli arrestati «dalla curiosità del pubblico e da ogni specie di pubblicità».

Ma venendo ora all’irta storia processuale di Cesare Battisti, proviamo a comprendere meglio di cosa si parla quando si inneggia al «far marcire in carcere». Battisti fu membro del gruppo Proletari Armati per il Comunismo (PAC), e condannato all'ergastolo per quattro delitti, di cui due commessi materialmente: si tratta di due omicidi avvenuti nello stesso giorno, alla stessa ora, in due città diverse; gli altri due, invece, in concorso con altri (concorso materiale in un caso, dopo esser stato incolpato da contraddittorie dichiarazioni dei ‘pentiti’, e morale nell'altro).  Tanti sono i dubbi che emergono dall’impianto accusatorio su Battisti, soprattutto sull’ipotetico caso dell’ubiquità omicida, così come del discusso ‘concorso morale’.

È inquietante che in uno stato di diritto possa risultare condannato all’ergastolo, chi, senza aver commesso fatti di sangue, abbia dato un mero contributo morale all’azione eversiva. Lo scandalo risiede tuttavia non tanto nella condanna, quanto nelle norme che hanno consentito tale condanna. La legislazione degli “anni di piombo” ha avuto il grandissimo torto di aver generato la cultura dell’emergenza: essa ha ridotto a un bricolage lo stato di diritto in materia penale. Da quegli anni si ricavano ancora tantissime iniquità, in primis in termini di ragionevolezza della pena, o delle stranezze ancora riscontrabili che riguardano la previsione, per numerose ipotesi, della stessa pena tra delitto consumato e delitto tentato, se non, addirittura, per atti preparatori al delitto. Ovvio che in questa prospettiva, risulta essenziale un intervento indulgenziale, unito a una battaglia per l’amnistia, operando contestualmente alla cancellazione delle norme autoritarie, le fonti del diritto che hanno permesso tutto ciò.

Si direbbe, di questi tempi, un’utopia. L’ipertrofia penale è infatti alle stelle: tracce autoritarie si rinvengono ovviamente nel Decreto Salvini, il populismo penale assume le forme di vele slegate e gonfie, la retorica politica è volta a riempire i codici e le celle, fuori da ogni concezione della garanzia di libertà e giustizia sociale.

Mentre il governo esulta per aver acciuffato uno di quelli che reputa un pericoloso psicocriminale, il dibattito politico ritorna a parlare di Legittima difesa, e lo fa rispolverando quello che fu l’episodio Torreggiani. Il gioielliere sparò in pubblico un rapinatore del gruppo PAC, qualche tempo dopo veniva ucciso, presumibilmente secondo le cronache da Battisti. Il figlioletto del gioielliere, oggi adulto, è paralizzato da quel giorno a causa di un proiettile sferratogli dal padre, in un tentativo maldestro di difesa. Ecco dunque che, in maniera soggettiva e scorretta, il modello di autodifesa fortemente voluto da Salvini riveste i panni del gioielliere milanese.

A chiosa di quanto accade in questo momento, è l’auspicio, anche dalle parti più di sinistra, di dover ricondurre nelle patrie galere anche gli altri terroristi, affinché tutti possano pagare il proprio maltorto, ma è proprio qui che risiede la contraddizione interna: mai invocare le maglie del penale se tali possono rivelarsi strette, fin da subito, per se stessi.