La settimana più fredda dell'anno a Palermo è improvvisamente diventata bollente

25 / 2 / 2018

La settimana più fredda dell’anno a Palermo è improvvisamente diventata bollente, dopo la pubblica umiliazione a mezzo nastro da imballaggio del neofascista Massimo Ursino, leader di Forza Nuova, e la canea mediatica e politica che si è scatenata.

Ma, al netto della collocazione locale dell’evento, è bene indagarne le cause rispetto ad una tendenza nazionale, che ha visto l’avanzata di movimenti identitari, sovranisti, misogini e xenofobi sostanzialmente avallata dall’arco politico governativo e protetta dalla forza pubblica; il loro agire, infatti, non è altro che una ripetizione dello squadrismo di vecchia e turpe memoria che, nonostante l’estetizzazione fatta ad uso e consumo dei media, per riprendere la formulazione del fascismo operata da Walter Benjamin, non è cambiata di una virgola, perché l’oggetto rimane quello di produrre un mitico e meta-storico ordine all’interno della società che si sono arrogati il compito di proteggere.

Di nuovo, dunque, il neofascismo si produce come supplemento delle forze dell’ordine e come surrogato dello Stato: il casus belli palermitano, ossia le ronde della stessa organizzazione sulle autovetture di servizio del trasporto urbano, per denunciare i passeggeri privi del titolo di viaggio, non sono che una dimostrazione tangibile e palese di questa articolazione, combattuta a parole e saldamente radicata nella materialità delle situazioni.  Nello specifico, per tornare all’evento palermitano, l’ipotesi del pestaggio si è fatta strada tra le bocche dei neofascisti e le veline della questura, fin troppo solerte nel voler assicurare i colpevoli alla giustizia, ed è stata ripresa senza nessun tipo di problematizzazione dalla stampa locale, ritagliando ad Ursino il ruolo di vittima ad hoc, cancellando di fatto con un colpo di spugna le sue precedenti e onorevoli gesta da picchiatore e squadrista.

Lo smascheramento del bluff poliziesco da parte del Gip, che ha derubricato l’accusa iperbolica di tentato omicidio, rimettendo in libertà i due attivisti ingiustamente accusati altro non fa che acutizzare il duplice problema del rapporto tra fascisti e apparati di polizia e fascisti e realtà locale al cui interno vorrebbero muoversi.

Sul primo punto, infatti, è innegabile e paradossale negare la contiguità tra Minniti e l’estrema destra tutta nel farsi entrambi custodi della costituzione di schmittiana memoria; e non il dettato costituzionale, ma i nuovi assetti materiali che lo sgretolamento post-democratico della forma di governo rappresentativa produce. Se i fascisti agitano lo spettro della legge per garantirsi il proprio squallido posto al sole alle spalle delle forze dell’ordine che solertemente proteggono ogni loro uscita pubblica, e Salvini giura su Vangelo e Costituzione per dare legittimità teologico-politica alla sua avanzata, Minniti, vera testa d’uovo del Pd, si fa interprete della Ragion di Stato che deve governare nell’interesse della salus pubblica, accreditandosi come garante in ultima istanza della pace sociale e della continuità degli apparati della governance.

I difensori dell’Uomo Bianco e gli artefici dell’autonomia delle pratiche governative si collocano dentro lo stesso spettro che in nome di una fantomatica “tolleranza” - termine ormai polisemico e sfilacciato, di cui si sono perse le origini genealogiche e politiche, che va da Voltaire a Pasolini - brutalizza, normalizza e disciplina il dissenso e le emergenze sociali per poter rendere “docili” i soggetti e rendere liscio lo spazio su cui inscrivere i dispositivi di accumulazione della ricchezza. Per non dimenticarlo, e per mettere a tacere soggetti che cianciano di una origine sociale del fascismo, esso è stato sempre espressione bigotta e violenta dei padroni, del comando, incarnazioni barbare e manesche del capitalista collettivo, buoni solo a mantenere l’ordine del plus-valore.

Ma, al netto di tutte queste considerazioni preliminari, ciò che conta di più in questo specifico frangente è sottolineare la composizione moltitudinaria del corteo che ieri, come tante altre volte, si è ripresa la città di Palermo ed il suo abbraccio collettivo. Studenti, precari, lavoratori, spazi autogestiti, realtà territoriali di base, donne e uomini differenti che condividono, però, un orizzonte comune di eguaglianza e di rifiuto della barbarie. Ed è proprio questa forza spinoziana della potestas che si crea in comune che ha reso palese il fatto che Palermo, città anti-fascista, anti-razzista e multiculturale nel suo dna, non è un palcoscenico agibile per i rigurgiti: l’ironia del nastro isolante, eletto dalle soggettività come simbolo allegorico, è propria di una città plebea, nel senso forte e politico che a questo termine può essere dato, che rifiuta il comando autoritario e che lo irride, metaforicamente e materialmente.

Come a Macerata, una composizione sociale vasta e ampia si è messa in marcia, chiedendo ad alta voce libertà ed autonomia, producendo inediti ed efficaci assemblaggi che, tagliando e attraversando trasversalmente il genere, la razza, la classe, materializzano nell’immediato la forza conflittuale dei processi di soggettivazione che vogliono qualificare in altro senso la democrazia, come articolazione tra tumulto e istituzione, come asimmetria perenne tra governanti e governati. Palermo, allora, è stata una delle tante forme che può prendere la polis a venire, come spazio di una parrhesia collettiva, innervato dalle connessioni tra le differenti soggettività e animato dalle forme-istituzionali che verranno costruite in comune. Ed è proprio l’insistenza su questo tessuto biopolitico, immanente al corpo collettivo della soggettività, a costituire il terreno proprio con cui plasmare i mezzi con cui arginare e combattere il fascismo in tutte le sue forme ,e riarticolare la lotta di classe come movimento della potenza soggettiva contro ogni degenerazione dell’umano, come forza che afferma, contro il Lavoro e lo Stato, archetipi morali dell’Uomo Bianco, la potenza della vita degna di essere vissuta, il desiderio materiale del comune, dell’essere-in-comune, l’orizzonte etico di un General Intellect composito, differente e plurale.