La palude

29 / 4 / 2010

Maggioranza della maggioranza, minoranza della maggioranza e opposizione si sono incartate subito dopo lo scontro fra Berlusconi e Fini. Il primo ha ventilato la possibilità di uscirne con nuove elezioni (l’unica cosa che sa fare), ma si è ben presto reso conto dei rischi e delle difficoltà oggettive dell’operazione, tanto più in una fase di riacutizzazione internazionale della crisi.

Il secondo non può tirare la corda più di tanto, perché può ottenere qualcosa minacciando la rottura, ma non può prenderne l’iniziativa troppo esplicitamente, tanto meno andare a una prova di forza nelle urne, da cui uscirebbe frantumato. Tutti e due devono stare fermi, meno che mai impegnarsi in un programma di riforme costituzionali, così che si sono messi a proclamare la necessità di farle d’accordo con l’opposizione –accordo palesemente impossibile.

Anche Bossi, che aveva sbrasato “voto subito”, ha capito in fretta che quello era il modo migliore per congelare i decreti attuativi del federalismo, cui non tiene poi tanto (lui pensa alle banche) ma sono la sua migliore carta propagandistica. L’opposizione, poi, dal voto anticipato è proprio terrorizzata e ha pensato bene di spaccarsi subito fra quanti (Bersani) corteggiano Fini includendolo in un nuovo Cln con bandiere patriottiche (che cattivo gusto farlo giusto il 25 aprile...) e sbattendo la porta in faccia a Berlusconi e alle sue riforme e quanti invece vogliono approfittare delle difficoltà del Papi per una nuova bicamerale. Indovinate se non è il solito D’Alema. Due soluzioni di spiccata originalità e sicuro fallimento. 

Nuvole di moscerini impazziti sopra la palude. Aria agitata e acqua stagnante. Nel frattempo la crisi, a lungo compressa e coperta dagli interventi pubblici, riesplode come rottura degli anelli deboli statali e penalizza l’Europa, dove i segni di ripresa sono più fiochi. Lo spauracchio greco tiene a bada i pruriti elettorali, ma molto più seriamente mette un veto a qualsiasi programma di spesa pubblica, ciò che azzera la curva di produttività e occupazione in Italia.

Grandi opere e centrali nucleari, per fortuna, restano nel libro dei sogni, ma il degrado industriale continua e la cassa integrazione (finché ci sono ancora soldi) dilaga. Fiat e Telecom portano il conto delle grandi aziende, ma la strage riguarda i dipendenti delle piccole e le partite Iva. Tuttavia questa crisi, a differenza di altre, non provoca tensioni sociali dirompenti, le rinvia e disperde proprio perché viene dopo un massiccio downsizing produttivo e il consolidamento di forme di lavoro precario e frammentato.

L’Italia è all’avanguardia nella manifestazione degli effetti politici, ovvero nella disintegrazione dei partiti di massa. La crisi del bi-polarismo, oggi del tutto evidente, risulta dal carattere finto dei partiti sorti dopo Mani Pulite e dalla fragilità intrinseca della spettacolarizzazione e personalizzazione della leadership che era sembrata un’alternativa al patto costituzionale del dopoguerra e alla sua corruzione. In questo senso la paralisi politica e istituzionale nazionale è una valida testimonianza dell’ascesa e della crisi della finanziarizzazione globale.

L’esemplarità è inversamente proporzionale al peso politico del nostro paese: proprio perché non contiamo niente, tutti ci lasciano fare e lo sfacelo non assistito esibisce appieno la logica del processo.
Un buon laboratorio, allora, per costruire alternative di base? In teoria forse, in pratica finora la vischiosità della situazione e le difficoltà di inventare una strategia per la moltitudine precaria hanno prevalso.

Il collasso delle strutture rappresentative ha liberato l’impatto sociale dei movimenti dai lacci della “sinistra”, parlamentare ed extra, ma ha diminuito le possibilità di negoziare risultati temporanei delle lotte (un effetto “sabbie mobili”); la discontinuità temporale dei movimenti e la loro eccessiva fluidità riflettono l’incoerenza sistemica del paese. Non palude, ma onda –  bene, ma la metafora indica ancora un eccesso di liquidità. E non siamo grandi fan di Bauman.