Davanti
all'esito della tornata elettorale - aumento dell'astensionismo, successo
schiacciante della Lega, vittoria del berlusconismo - Francesco Raparelli ci
invita, giustamente, «a fare i conti con ciò che c'è e non con ciò che dovrebbe
esserci». Ripartire dalla materialità del contesto sociale, culturale,
politico, dai rapporti di forza, dai punti di resistenza. Una crisi così
potente necessita un'analisi spietata e poco consolante, che metta a verifica
ipotesi e strategie verso quella «new thing» di cui abbiamo assoluto bisogno.
Dando per assunta la cornice del ragionamento di Francesco (il carattere
strutturale della crisi globale e l'egemonia delle destre nella costruzione di
processi identitari e di «riterritorializzazione»), è utile indagare la
«microfisica» di questo modello di governance che in Italia, a differenza degli
altri paesi europei, non sembra attraversare crisi evidenti. Un punto di vista
parziale, ovviamente, che fa uno zoom sulle vicende di Roma e del Lazio.
Lunedì scorso, subito dopo la chiusura dei seggi, una giornalista dell'Unità si
è divertita a fare delle interviste random all'uscita delle sezioni elettorali
di Roma. Ai passanti veniva chiesto di motivare razionalmente la preferenza
data a Renata Polverini o Emma Bonino, in riferimento a un punto specifico del
programma, una promessa elettorale, un progetto di governo. La stragrande
maggioranza degli elettori di destra offriva risposte che nulla avevano a che
fare con il contenzioso elettorale. Oltre alle indicazioni di carattere
clientelare (il «consiglio» di qualche parente o amico), più che altro veniva
espressa una sorta di fidelizzazione ideologica, una «scelta di campo», un
immaginario brutale. Insomma, una vera e propria «forma di vita».
Impressionanti, da questo punto di vista, le parole di un pensionato e di un
ragazzo che motivavano il voto alla destra come «necessario per fermare le
intercettazioni telefoniche contro il nostro presidente del consiglio».
All'inizio di marzo, a seguito dell'esclusione della lista del Pdl, i sondaggi
davano per persa la partita della destra nel Lazio. Nonostante il peggiorare
della crisi economica, il susseguirsi degli scandali, il pasticcio delle liste
elettorali, una piazza San Giovanni semi-vuota e una candidata - estranea al
prototipo berlusconiano - che si fa fotografare in curva circondata da
fascisti, il Cavaliere fa il miracolo: ancora una volta, riesce nell'impresa di
cambiare la direzione degli eventi, giocando tutto se stesso, il suo corpo, il
suo ruolo. Mettendosi al centro del conflitto politico e sfidando i suoi
avversari a venir fuori.
Per un attimo mettiamo da parte alcuni elementi che hanno concorso all’esito
elettorale, come il picco di astensionismo (da valutare nella sua presunta
intenzionalità politica) o l'inconsistenza dell'opposizione, divisa tra un Pd
ineffabile, giustizialisti vari e sinistre alla deriva. Concentriamoci sulla
potenza biopolitica del sistema berlusconiano, troppo volte evocata nelle
analisi ma forse sottovalutata nei suoi effetti materiali. La governance
del Cavaliere non punta alla costruzione di consenso ma all'affermazione di una
forma di vita, scandagliata, perseguita e modellata sul paese in un processo
lungo trent'anni.
Non è tanto il Tg1 della sera a rappresentare la costruzione del consenso e la
censura. Bisogna piuttosto mettersi davanti alla tv durante un qualsiasi
pomeriggio per comprendere la qualità inquietante dell'ordine del discorso del
Biscione: generazioni intere coccolate, adulate, ammiccate, invogliate a
desiderare un mondo dove - è vero - trionfa sempre «l'amore» (dell'impresa e del
comando) contro la dimensione «livorosa» e «rancorosa» dell'odio (dei soggetti
che sfuggono al controllo). Un mondo dove le libertà e la cooperazione sociale
esplose negli anni settanta vengono utilizzate come fondamento - traslato - di
un modello di sfruttamento che chiede partecipazione, autonomia, desiderio,
singolarità. «Libertà» e «autonomia», quindi, come premesse produttive della
valorizzazione economica.
Non c'è nessuna visione apocalittica né banalmente cronenberghiana del rapporto
tra media e società, né tantomeno la sottovalutazione delle possibili vie di
fuga presenti nella «società della comunicazione». Il caso italiano però va
raccontato per quello che è: Berlusconi risponde, ovviamente, a un «blocco
sociale» del comando liberista, offre una risposta materiale alla
trasformazione della composizione del lavoro (piccole e medie imprese, partite
Iva, lavoro autonomo, eccetera), ma tutto questo non spiega il processo nella
sua interezza. Il Cavaliere va oltre: vende sogni, pratiche di vita e di consumo,
alza il baluardo della «libertà» contro le liturgie grigie e spente dei codici,
delle regole, delle costituzioni invocate dalla sinistra; si fa
«rivoluzionario» contro le garanzie di un mondo seppellito dalla storia, oltre
che dai movimenti (Bersani ai cancelli della Fiat ne è la patetica
testimonianza); fonda il suo biopotere sulla «libertà sessuale» e l'illusione
(di straordinaria presa) della giovinezza eterna. L'alchimia dell'imperatore di
Arcore tiene insieme federalisti con il culo ben piantato da venti anni sulle
poltrone di Roma e neofascisti centralizzatori, l'ampolla del Po e il
clericalismo cattolico, l'ideologia del libero mercato e il peggior
clientelismo democristiano.
In questo scenario «l'anomalia italiana» si scaglia dentro e contro tre
tendenze interne ai processi di globalizzazione: la progressiva egemonia del
lavoro cognitivo nella produzione, il rapporto metropoli/periferia e il ruolo
delle gerarchie cattoliche nella costruzione del consenso. Sul primo punto,
l'innovazione berlusconiana riesce nel miracolo di cavalcare le trasformazioni
produttive, facendone campo di egemonia culturale e valorizzazione economica.
Ma al tempo stesso, assistiamo a un processo di dequalificazione della
scolarizzazione di massa, con picchi inquietanti di analfabetismo di ritorno.
Anche qui, va in crisi ogni illusione lineare e progressiva del rapporto tra
nuovo statuto della composizione del lavoro vivo e possibilità di liberazione.
Creatività, condivisione, cooperazione vengono ridotte al loro simulacro, messe
alla gogna da un sistema di potere che conserva tonalità feudali.
L'alchimia funziona anche nel rapporto con le gerarchie ecclesiastiche,
nonostante il carattere irreversibile dei processi di secolarizzazione e
uno stile di vita – quello del Capo - che fa del corpo e della sessualità uno
spartito su cui costruire gerarchia e potere, producendo un effetto di
emulazione di massa. Succede così che, a tre giorni dalle elezioni, il Vaticano
decide di intervenire a gamba tesa, con l'invito esplicito al «voto utile in
difesa della vita». La presa di posizione risulterà decisiva nel motivare
l'elettorato più conservatore, in particolare quello delle province laziali.
Non è un caso che Il Tempo, quotidiano di destra della capitale, il giorno dopo
la vittoria della Polverini, parla di rivincita della «prudenza cattolica e
borghese» (tipica della provincia), contro la cultura e gli stili di vita della
metropoli. Non è un caso che in tutte le regioni italiane emerge con forza una
dicotomia centro/periferia che credevamo attenuata dentro i processi di rete
della globalizzazione, nelle mappe dei distretti metropolitani.
In questo scenario sorprendente si compie la transizione del
"postmoderno", si passa il confine della sovranità e della
rappresentanza come le abbiamo conosciute nella società fordista, con i
relativi apparati di mediazione. Ma cosa significa «crisi di rappresentanza»
nella crisi globale? Forse dovremmo mettere in discussione un'accezione
monolitica e uniforme di questa crisi, calibrandola ai singoli territori,
ambiti produttivi, attitudini culturali. Se è vero che la sovranità
novecentesca va in pezzi davanti alla dimensione globale, fisica e virtuale,
dobbiamo saper cogliere le diverse risposte del comando a questa crisi. La Lega
nord, ad esempio, sembra esprimere una risposta efficace, che tiene insieme
centralismo politico – ministeri, ruoli chiave nelle società para-pubbliche,
alleanze con i poteri forti - e radicale declinazione territoriale ed «etnica».
Partito gerarchico, verticale, nepotista al limite del folklore (l’exploit del
«somaro» Renzo Bossi), capace di gestire una sorta di «welfare parallelo» in
difesa degli interessi «particolari» colpiti dalla crisi economica. La crisi
della rappresentanza distrugge, fino ad ora, soprattutto quel che resta della
«sinistra», ancora incapace di elaborare la fine di un mondo di cui intendeva
rappresentare interessi e desideri.
Si apre una stagione di sfide radicali per i movimenti, domande aperte che
necessitano di sperimentazione, capacità di ascolto, inchiesta, rottura di
inerzie politiche: come difendere gli spazi di intelligenza e libertà
nella globalizzazione in crisi? Come affermare un nuovo pensiero forte, oltre
«l'interesse generale», ma capace di esercitare un’egemonia costituente contro
la brutalità delle spinte neo-identitarie, egoiste, razziste? Come ripensare la
rivoluzione davanti l'incedere degli incubi del terzo millennio? Come
affrontare la sfida della governance federalista che trasformerà, sempre
più, le istituzioni di prossimità – comuni e regioni – in terreno di
lotta privilegiato del comune (bacini produttivi, allocazione di
risorse, gestione dei servizi, nuovo welfare)?
In questo momento storico, se guardiamo il contesto europeo, l’Italia presenta
le condizioni più difficili e complicate, dovute alla barbarie culturale che si
è fatta governo e ad una evidente arretratezza produttiva. Un principio di
realtà, che non possiamo tradurre in inerzia o timidezza politica. Davanti a un
processo globale di «nuova accumulazione», fondata sull’esproprio dei beni
comuni naturali e della conoscenza, occorre rispondere con un nuovo processo di
«civilizzazione», una nuova narrazione di frontiera, una nuova idea di
cittadinanza, allo stesso tempo meticcia e universale.
Questa è la sfida del nostro tempo.