La mutazione è compiuta

di Emiliano Viccaro

7 / 4 / 2010

Davanti all'esito della tornata elettorale - aumento dell'astensionismo, successo schiacciante della Lega, vittoria del berlusconismo - Francesco Raparelli ci invita, giustamente, «a fare i conti con ciò che c'è e non con ciò che dovrebbe esserci». Ripartire dalla materialità del contesto sociale, culturale, politico, dai rapporti di forza, dai punti di resistenza. Una crisi così potente necessita un'analisi spietata e poco consolante, che metta a verifica ipotesi e strategie verso quella «new thing» di cui abbiamo assoluto bisogno. Dando per assunta la cornice del ragionamento di Francesco (il carattere strutturale della crisi globale e l'egemonia delle destre nella costruzione di processi identitari e di «riterritorializzazione»), è utile indagare la «microfisica» di questo modello di governance che in Italia, a differenza degli altri paesi europei, non sembra attraversare crisi evidenti. Un punto di vista parziale, ovviamente, che fa uno zoom sulle vicende di Roma e del Lazio.

Lunedì scorso, subito dopo la chiusura dei seggi, una giornalista dell'Unità si è divertita a fare delle interviste random all'uscita delle sezioni elettorali di Roma. Ai passanti veniva chiesto di motivare razionalmente la preferenza data a Renata Polverini o Emma Bonino, in riferimento a un punto specifico del programma, una promessa elettorale, un progetto di governo. La stragrande maggioranza degli elettori di destra offriva risposte che nulla avevano a che fare con il contenzioso elettorale. Oltre alle indicazioni di carattere clientelare (il «consiglio» di qualche parente o amico), più che altro veniva espressa una sorta di fidelizzazione ideologica, una «scelta di campo», un immaginario brutale. Insomma, una vera e propria «forma di vita». Impressionanti, da questo punto di vista, le parole di un pensionato e di un ragazzo che motivavano il voto alla destra come «necessario per fermare le intercettazioni telefoniche contro il nostro presidente del consiglio».

All'inizio di marzo, a seguito dell'esclusione della lista del Pdl, i sondaggi davano per persa la partita della destra nel Lazio. Nonostante il peggiorare della crisi economica, il susseguirsi degli scandali, il pasticcio delle liste elettorali, una piazza San Giovanni semi-vuota e una candidata - estranea al prototipo berlusconiano - che si fa fotografare in curva circondata da fascisti, il Cavaliere fa il miracolo: ancora una volta, riesce nell'impresa di cambiare la direzione degli eventi, giocando tutto se stesso, il suo corpo, il suo ruolo. Mettendosi al centro del conflitto politico e sfidando i suoi avversari a venir fuori.

Per un attimo mettiamo da parte alcuni elementi che hanno concorso all’esito elettorale, come il picco di astensionismo (da valutare nella sua presunta intenzionalità politica) o l'inconsistenza dell'opposizione, divisa tra un Pd ineffabile, giustizialisti vari e sinistre alla deriva. Concentriamoci sulla potenza biopolitica del sistema berlusconiano, troppo volte evocata nelle analisi ma forse sottovalutata nei suoi effetti materiali. La governance del Cavaliere non punta alla costruzione di consenso ma all'affermazione di una forma di vita, scandagliata, perseguita e modellata sul paese in un processo lungo trent'anni.

Non è tanto il Tg1 della sera a rappresentare la costruzione del consenso e la censura. Bisogna piuttosto mettersi davanti alla tv durante un qualsiasi pomeriggio per comprendere la qualità inquietante dell'ordine del discorso del Biscione: generazioni intere coccolate, adulate, ammiccate, invogliate a desiderare un mondo dove - è vero - trionfa sempre «l'amore» (dell'impresa e del comando) contro la dimensione «livorosa» e «rancorosa» dell'odio (dei soggetti che sfuggono al controllo). Un mondo dove le libertà e la cooperazione sociale esplose negli anni settanta vengono utilizzate come fondamento - traslato - di un modello di sfruttamento che chiede partecipazione, autonomia, desiderio, singolarità. «Libertà» e «autonomia», quindi, come premesse produttive della valorizzazione economica.

Non c'è nessuna visione apocalittica né banalmente cronenberghiana del rapporto tra media e società, né tantomeno la sottovalutazione delle possibili vie di fuga presenti nella «società della comunicazione». Il caso italiano però va raccontato per quello che è: Berlusconi risponde, ovviamente, a un «blocco sociale» del comando liberista, offre una risposta materiale alla trasformazione della composizione del lavoro (piccole e medie imprese, partite Iva, lavoro autonomo, eccetera), ma tutto questo non spiega il processo nella sua interezza. Il Cavaliere va oltre: vende sogni, pratiche di vita e di consumo, alza il baluardo della «libertà» contro le liturgie grigie e spente dei codici, delle regole, delle costituzioni invocate dalla sinistra; si fa «rivoluzionario» contro le garanzie di un mondo seppellito dalla storia, oltre che dai movimenti (Bersani ai cancelli della Fiat ne è la patetica testimonianza); fonda il suo biopotere sulla «libertà sessuale» e l'illusione (di straordinaria presa) della giovinezza eterna. L'alchimia dell'imperatore di Arcore tiene insieme federalisti con il culo ben piantato da venti anni sulle poltrone di Roma e neofascisti centralizzatori, l'ampolla del Po e il clericalismo cattolico, l'ideologia del libero mercato e il peggior clientelismo democristiano.

In questo scenario «l'anomalia italiana» si scaglia dentro e contro tre tendenze interne ai processi di globalizzazione: la progressiva egemonia del lavoro cognitivo nella produzione, il rapporto metropoli/periferia e il ruolo delle gerarchie cattoliche nella costruzione del consenso. Sul primo punto, l'innovazione berlusconiana riesce nel miracolo di cavalcare le trasformazioni produttive, facendone campo di egemonia culturale e valorizzazione economica. Ma al tempo stesso, assistiamo a un processo di dequalificazione della scolarizzazione di massa, con picchi inquietanti di analfabetismo di ritorno. Anche qui, va in crisi ogni illusione lineare e progressiva del rapporto tra nuovo statuto della composizione del lavoro vivo e possibilità di liberazione. Creatività, condivisione, cooperazione vengono ridotte al loro simulacro, messe alla gogna da un sistema di potere che conserva tonalità feudali.

L'alchimia funziona anche nel rapporto con le gerarchie ecclesiastiche, nonostante il carattere irreversibile dei processi di secolarizzazione e uno stile di vita – quello del Capo - che fa del corpo e della sessualità uno spartito su cui costruire gerarchia e potere, producendo un effetto di emulazione di massa. Succede così che, a tre giorni dalle elezioni, il Vaticano decide di intervenire a gamba tesa, con l'invito esplicito al «voto utile in difesa della vita». La presa di posizione risulterà decisiva nel motivare l'elettorato più conservatore, in particolare quello delle province laziali. Non è un caso che Il Tempo, quotidiano di destra della capitale, il giorno dopo la vittoria della Polverini, parla di rivincita della «prudenza cattolica e borghese» (tipica della provincia), contro la cultura e gli stili di vita della metropoli. Non è un caso che in tutte le regioni italiane emerge con forza una dicotomia centro/periferia che credevamo attenuata dentro i processi di rete della globalizzazione, nelle mappe dei distretti metropolitani.

In questo scenario sorprendente si compie la transizione del "postmoderno", si passa il confine della sovranità e della rappresentanza come le abbiamo conosciute nella società fordista, con i relativi apparati di mediazione. Ma cosa significa «crisi di rappresentanza» nella crisi globale? Forse dovremmo mettere in discussione un'accezione monolitica e uniforme di questa crisi, calibrandola ai singoli territori, ambiti produttivi, attitudini culturali. Se è vero che la sovranità novecentesca va in pezzi davanti alla dimensione globale, fisica e virtuale, dobbiamo saper cogliere le diverse risposte del comando a questa crisi. La Lega nord, ad esempio, sembra esprimere una risposta efficace, che tiene insieme centralismo politico – ministeri, ruoli chiave nelle società para-pubbliche, alleanze con i poteri forti - e radicale declinazione territoriale ed «etnica». Partito gerarchico, verticale, nepotista al limite del folklore (l’exploit del «somaro» Renzo Bossi), capace di gestire una sorta di «welfare parallelo» in difesa degli interessi «particolari» colpiti dalla crisi economica. La crisi della rappresentanza distrugge, fino ad ora, soprattutto quel che resta della «sinistra», ancora incapace di elaborare la fine di un mondo di cui intendeva rappresentare interessi e desideri.

Si apre una stagione di sfide radicali per i movimenti, domande aperte che necessitano di sperimentazione, capacità di ascolto, inchiesta, rottura di inerzie politiche: come difendere  gli spazi di intelligenza e libertà nella globalizzazione in crisi? Come affermare un nuovo pensiero forte, oltre «l'interesse generale», ma capace di esercitare un’egemonia costituente contro la brutalità delle spinte neo-identitarie, egoiste, razziste? Come ripensare la rivoluzione davanti l'incedere degli incubi del terzo millennio? Come affrontare la sfida della governance federalista che trasformerà, sempre più, le istituzioni di prossimità – comuni e regioni –  in terreno di lotta privilegiato del comune (bacini produttivi, allocazione di risorse, gestione dei servizi, nuovo welfare)?

In questo momento storico, se guardiamo il contesto europeo, l’Italia presenta le condizioni più difficili e complicate, dovute alla barbarie culturale che si è fatta governo e ad una evidente arretratezza produttiva. Un principio di realtà, che non possiamo tradurre in inerzia o timidezza politica. Davanti a un processo globale di «nuova accumulazione», fondata sull’esproprio dei beni comuni naturali e della conoscenza, occorre rispondere con un nuovo processo di «civilizzazione», una nuova narrazione di frontiera, una nuova idea di cittadinanza, allo stesso tempo meticcia e universale.

Questa è la sfida del nostro tempo.